menú principal

volver al programa provisional

X Coloquio Internacional de Geocrítica

DIEZ AÑOS DE CAMBIOS EN EL MUNDO, EN LA GEOGRAFÍA Y EN LAS CIENCIAS SOCIALES, 1999-2008

Barcelona, 26 - 30 de mayo de 2008
Universidad de Barcelona


DALLO STUDIO DEL RISCHIO ALLUVIONALE AL PAESAGGIO DEL RISCHIO

Stefano Malatesta
Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”.
Università degli Studi Milano-Bicocca
stefano.malatesta@unimib.it

Dallo studio del rischio alluvionale al paesaggio del rischio (Resumen)

Considerando il dibattito internazionale sul tema delle relazioni tra rischio, cultura e società appare evidente il fondamentale contributo fornito dagli antropologi e dai sociologi. Tanto che è possibile individuare una specifica “antropologia del rischio” ed una specifica “sociologia del rischio”. Per la nostra disciplina è possibile affermare lo stesso? Rispondere a questa domanda implica riconsiderare la supremazia esercitata negli ultimi decenni dagli studiosi anglo-statunitensi. Si tratta di un’eredità che - a livello epistemologico – ha contribuito a limitare l’applicazione di categorie geografiche alternative al modello dominante, mentre - a livello metodologico – ha prodotto una cristallizzazione di una procedura-standard rivolta unicamente alla valutazione dell’impatto territoriale causato dagli eventi estremi. Nel presente articolo, attraverso una critica della letteratura internazionale, si mostra una via per l’utilizzo della categoria del paesaggio nello studio del rischio alluvionale. Definendo il paesaggio del rischio alluvionale come la struttura di segni lasciata dalle comunità umane sul territorio.

Parole chiave: rischio alluvionale, supremazia anglo-statunitense, lettura critica, paesaggio e paesaggio del rischio.

From flood hazard to floodscape (Abstract)

Considering the international debate on connections among risk, culture and society, we recognize the fundamental role played by Anthropology and Sociology. Insomuch that “Anthropology of risk” and “Sociology of risk” can be defined as specific disciplinary branches. Looking at our discipline, could we state the same affirmation? This question forces us to reconsider the supremacy kept by Anglo-American scholars during the last decades. A legacy that - at the epistemological level - has limited the quest for alternative approaches, and - at the methodological level - has produced a crystallization of a “standard operating procedure”, focused essentially on the valuation of social impact caused by catastrophic events. After a critical review of the international literature, the author discusses the use of landscape as a “geographical category”. Defining floodscape as the “semantic structure” left by human communities on their territories.

Key words: flood hazard, Anglo-American supremacy, critical review, landscape and floodscape.

Flood hazard e “geografia del rischio”

Il rischio è un oggetto di studio trasversale alle scienze sociali. Per questa ragione risulta particolarmente complesso accettarne una definizione univoca. Molto più utile è cercare un campo di riferimento all’interno del quale sviluppare le proprie riflessioni. Il presente lavoro trae le mosse dal pensiero di Ulrich Beck[1]:

“the discourse of risk begins when trust in our security and belief in progress end. It is cultural perception and definition that constitutes risk”[2];

nella convinzione che questo punto di vista sia fondamentale per tentare un’analisi del rapporto tra la risposta dei sistemi sociali, la narrazione pubblica e la dimensione territoriale, direttamente connesse al rischio. Ciò non toglie che sia necessario, nel caso in cui si tratti una specifica tipologia di rischio, tentare di arricchire tale campo con definizioni che permettano di delineare con maggiore precisione i contorni dell’oggetto in questione. Un’alluvione può essere definita, in termini generali, come:

“a process that occurs when the quantity of water exceeds the capacity of streams, rivers and lakes[3];

una catastrofe che assume i connotati di rischio per le comunità umane solo se viene concepita come:

“an interaction of man and nature, governed by the coexistent state of adjustment in the human use system and the state of nature in the natural events systems[4].

Dagli anni Sessanta del secolo scorso molti geografi - o ricercatori riconducibili alla nostra disciplina - si sono mossi all’interno di questo campo speculativo ed applicativo. Gli sforzi diretti ad una lettura sistematica di questa mole di contributi (R. Geipel, 1980; E. Bianchi, 1980, 1993; D. Sauri-Pujol e A. Ribas-Palom, 1994, C. Johnson, S. Tunstall y E. Penning-Roswell, 2005a) hanno messo in luce la presenza, forse esclusiva, di una “scuola geografica del rischio” costituitasi intorno ad un gruppo di studiosi che, negli anni, hanno collaborato o si sono ispirati ad alcune figure di riferimento come G-F. White e R-W. Kates.

Nel presente contributo si intende sottolineare che l’accettazione della “scuola statunitense” (M. Corgnati, 1989) come “l’autentica scuola geografica del rischio”, comporta l’adozione  di una visione sistemica - necessaria per comprendere le interazioni tra i due soggetti co-agenti - ma anche di un punto di vista che tende ad omologare le peculiarità culturali dei sistemi antropici coinvolti. Si rileva come questo nodo sia stato, nel corso degli ultimi decenni, sottolineato da numerosi autori (M. Douglas y A. Wildavsky, 1983; M. Schwarz y M. Thompson, 1993). Ciò che tali critiche non hanno messo a fuoco è il fatto che la scuola statunitense ha ridotto i prodotti - materiali e immateriali - derivanti dalla risposta sociale, al ruolo di oggetti statici e, contemporaneamente, non ha prestato un’adeguata attenzione nei confronti del processo di dotazione di senso, cui tali oggetti vanno incontro, nel corso dello sviluppo storico di un rischio. Contribuendo, in questo modo, a tenere lontano lo studio della risposta sociale dalla considerazione che l’impatto di una catastrofe non è un evento unicamente fisico né un fenomeno che si riversa esclusivamente sulla sfera gestionale. Ma che, al contrario, è un’azione che si esercita - e si espande - anche nel campo della costruzione antropica del paesaggio. La decisione di porre come primo nodo problematico la critica nei confronti degli studi di G-F. White, di R-W. Kates - e di altri studiosi che hanno lavorato seguendo il “Modello dell’Ecologia Umana” (R-W. Kates, 1971) - deriva della volontà di verificare se, e in quale misura, il loro impianto teorico abbia letto il legame tra sistema antropico e rischio attraverso le categorie dell’analisi geografica. Infatti questi autori sono comunemente considerati come i componenti della più importante scuola geografica che si sia dedicata al tema a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso in avanti. Sin dagli studi pioneristici (G-F. White, 1945, 1961) la scuola statunitense si è dedicata allo studio del rischio alluvionale, in particolare al tema dal legame tra impatto e scelte residenziali. Anche per questa ragione, in questo contributo, ci si concentra nello specifico su questa tipologia di hazard. Chiarendo, dal principio, che si tratta di un articolo di natura teorica e che, soprattutto in conseguenza delle dimensioni complessive del contributo, non sono stati inseriti casi si studio che potessero descrivere in modo più chiaro l’impianto epistemologico seguito.

Un’eredità di natura epistemologica e metodologica

Recentemente C. Johnson, S. Tunstall e E. Penning-Roswell hanno definito i prodotti dello sforzo scientifico sviluppato dagli esponenti della scuola statunitense come una “pletora di contributi” (2005a). A questo tipo di valutazione di natura quantitativa è necessario accostare una riflessione sugli aspetti qualitativi ereditati dalla letteratura internazionale. Infatti, ricorrendo nuovamente ad espressioni anglofone, dagli anni Settanta del secolo scorso pare si sia affermata una legacy epistemologica e metodologica direttamente riconducibile all’impianto teorico della scuola statunitense. Il peso di tale eredità appare evidente anche se si analizzano le continue ridefinizioni conosciute negli ultimi decenni (R-E. Kasperson y K-D, Pijawka, 1985; I. Burton, R-W. Kates y G-F. White, 1993) dal Modello dell’Ecologia Umana.

A livello epistemologico emerge la centralità di alcuni elementi: 1) attenzione al contributo fornito dalle scienze naturali; 2) ruolo fondamentale del sistema umano sia come concausa, sia come destinatario dell’impatto catastrofico; 3) valutazione della dimensione sociale; infine, 4) adozione di un metodo di ricerca che pone in primo piano lo studio di caso e la descrizione delle caratteristiche della geografia umana regionale (S. Malatesta, 2007).

Inoltre, nel corso di oltre due decenni, tale lascito ha, proprio grazie alla sua efficacia, teso a cristallizzare l’impostazione metodologica seguita da una parte significativa della letteratura internazionale. Ci si riferisce al ricorso sistematico ad una procedura standard strutturata su convenzioni che, per certi versi, hanno limitato le potenzialità di questo modello come strumento utile all’analisi geografica[5]. Sia a livello epistemologico sia a livello metodologico si tratta della diretta conseguenza di aver costantemente mantenuto il focus centrale sulla valutazione dei cambiamenti sociali innescati dall’evento e, soprattutto, sull’effettiva misurabilità dell’efficacia delle strutture difensive attive e passive, trascurando la possibilità di ricorrere ad esempio alla descrizione delle componenti maggiormente legate all’immagine geografica o al discorso pubblico connesso alle trasformazioni territoriali. Queste limitazioni sono evidenti se si procede ad una rilettura critica dei contributi pubblicati, negli ultimi due decenni, sulle riviste specializzate.

1980- oggi: una rilettura critica

Al fine di discutere tale ipotesi si è resa necessaria una rilettura critica dell’importante mole di studi dedicati al rischio alluvionale pubblicati dal 1980 al 2005[6]. La scelta di adottare il passaggio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta come il momento iniziale dell’affermazione di tale eredità nasce dalla valutazione di alcuni elementi. Innanzitutto nel 1978 I. Burton, R-W. Kates e G-F. White pubblicano The Environment as Hazard - sarà rieditato dopo quindici anni - che raccoglie tutti gli spunti e le chiavi interpretative fondamentali della scuola statunitense, in particolare per quanto concerne gli studi di caso dedicati al tema del rischio alluvionale. Inoltre, a cavallo tra i due decenni, si sviluppa la ricerca sull’impatto delle catastrofi sulle strutture sociali condotta da R. Geipel (1977, 1980), in contemporanea con l’interesse dimostrato dalla geografia italiana, e in parte europea, per il tema della percezione del rischio. Riferendosi direttamente al tema del rischio alluvionale, nel 1979 viene pubblicato il lavoro di D-J. Parker e D-M. Harding: Natural Hazard Evaluation, Perception and Adjustment (1979). Si tratta di un articolo di fondamentale importanza soprattutto in considerazione dell’interesse in seguito dimostrato da D-J. Parker nei confronti del flood hazard e documentato dalla sua bibliografia prodotta negli anni Ottanta e Novanta. Infine, si tratta probabilmente dell’elemento più rilevante, in questi anni alcuni centri di ricerca (il Flood Hazard Research Centre ed il National Hazard Research Center) ed alcune riviste (Disasters e Environment and Behavior) hanno contribuito ad arricchire il dibattito internazionale - di natura essenzialmente interdisciplinare (C. Kelly, 1998) - riguardo il tema delle relazioni catastrofiche tra sistemi naturali e sistemi antropici. Tutti questi fattori, in un modo o nell’altro, sono stati fondamentali nell’affermazione a livello internazionale di un metodo di studio derivato dalla scuola statunitense e cristallizzato secondo le basi epistemologiche e metodologiche sopracitate.

La rilettura critica qui sintetizzata è stata condotta su un campione di dieci riviste divise in diversi segmenti a seconda degli indirizzi di riferimento. Innanzitutto si è inteso prendere in considerazione i prodotti più rilevanti attraverso i quali sono stati, negli anni, comunicati i risultati degli studi di caso dedicati al rischio alluvionale. Disasters, pubblicata da Blackwell con il titolo completo di Disasters. The Journal of Disaster Studies, Policy and Management; The Natural Hazard Observer, bollettino che raccoglie articoli, comunicazioni e progetti del Natural Hazard Center di Boulder; Natural Hazard Review, rivista collegata all’American Society of Civil Engineers, rivolta specificamente allo studio delle interazioni tra le caratteristiche fisiche degli eventi e il loro impatto sui sistemi sociali. In secondo luogo è emersa la volontà di rileggere anche il repertorio che fosse dedicato nello specifico al lato percettivo e sociale del rischio. A tal scopo è stata inclusa la rivista, pubblicata da SAGE, Environment and Behavior che, nel corso di oltre venti anni, ha dedicato ampio spazio allo studio degli aspetti pisco-sociali connessi ai grandi eventi catastrofici. Infine, in ragione soprattutto degli obiettivi fondamentali del presente lavoro, sono state selezionate alcune riviste internazionali dedicate a differenti temi trasversali alla geografia umana quali: The Geographical ReviewGeography e The Geographical Journal. Oltre a tre riviste rappresentative di diverse scuole geografiche europee[7]: la Rivista Geografica Italiana per l’Italia, Estudios Geográficos per la Spagna, e Bulletin de l’Association de Géographes français per la Francia.

La scelta dei contributi da includere nel campione è stata condotta secondo alcuni parametri. Innanzitutto sono stati raccolti gli articoli che hanno trattato direttamente il tema del rischio alluvionale secondo due prospettive principali: attraverso lo studio di caso e attraverso lo studio delle politiche di gestione del rischio[8]. Sono stati raccolti 116 articoli - solo in minima parte espressamente collegati alla scuola statunitense - analizzati ricorrendo ad una griglia di lettura che permettesse di catalogarli a seconda della tipologia e a seconda dei criteri che hanno governato la scelta del caso. Relativamente a tali parametri va specificato che per quanto riguarda la tipologia sono stati distinti i lavori che raccolgono le riflessioni seguenti ad uno studio di caso da quelli invece dedicati alla valutazione generica della risposta sociale (materiale o immateriale). In questo senso va ricordato che solamente un numero ridotto dei contribuiti  - 14 -  non è dedicato ad un caso di studio specifico

Il primo elemento che emerge è una decisa tendenza a studiare in maniera prioritaria il lato gestionale del rischio. Nella maggioranza degli studi di caso - 82 articoli sul totale di 102 - si trova una sezione significativa (un paragrafo dedicato, una parte consistente delle conclusioni o una sezione dedicata alle possibili applicazioni della ricerca) rivolta alla discussione della problematica legata all’adozione di normative specifiche o al contenimento fisico degli eventi calamitosi.

In secondo luogo, ulteriore conferma del peso esercitato dall’impianto scientifico della scuola statunitense, è possibile notare come in 33 articoli sul totale la struttura seguita nella presentazione del caso sia perfettamente in linea con le indicazioni proposte da G-F. White nel 1974. Vale a dire: una preliminare “site description”, focalizzata su, “the conventional attributes of land form, soil and vegetation types, land use, and population”, completata da una valutazione della serie storica del hazard in oggetto, dove una particolare attenzione “was given to distribution in time and space of the hazard as well as to damages resulting from it over the period of historic record”, seguita - in chiusura - da un’analisi dell’impatto “of the particular hazard to the economy and social organization of the region”[9].

Oltre a ciò va fatto notare che questi articoli possono essere letti come presentazioni di studi sul campo che hanno utilizzato strumenti di indagine, se non coincidenti perlomeno assimilabili - per costruzione, scelta del campione e modalità di raccolta dei dati - al “General Questionnaire” (G-F. White, 1974), lo strumento fondamentale delle ricerche sulla percezione del rischio di matrice statunitense. Ci si riferisce in particolare alla ricorrenza di studi di caso (complessivamente 41) nei quali è stata privilegiata la descrizione di un singolo evento catastrofico e nei quali l’obiettivo fondamentale consiste nella valutazione dell’impatto che tale evento ha avuto sul sistema sociale. Si tratta di una tendenza trasversale alla localizzazione geografica delle regioni oggetto di studio, trasversalità che obbliga a supporre che si tratti di una scelta legata maggiormente alla dimensione operativa delle ricerche che alle caratteristiche geografiche del caso di studio.

Per quanto riguarda direttamente la scelta dei casi, il dato che emerge con maggiore evidenza riguarda il ruolo fondamentale rivestito dagli eventi verificatesi in regioni incluse nei “developing countries” (G-F. White, 1974): ben 36 sul totale. Si adotta tale definizione per sottolinearne l’uso costante all’interno degli studi anglo-statunitensi. In questo modo viene ribadito un ulteriore livello di corrispondenza tra The Environment as Hazard (I., Burton, R-W. Kates y G-F. White, 1978) e gli studi pubblicati in seguito. Infatti si nota un sostanziale accordo sui  parametri della geografia umana che, secondo la scuola statunitense, definiscono una regione in quanto realtà economica e sociale e in “via di sviluppo”. Senza tale specifica sarebbe risulterebbe inaccettabile l’utilizzo acritico di questa categoria. Si tratta di regioni dove:

“the households selected were poor and  dependent on agriculture and agriculture-related occupations for subsistence - da cui si evince che  - this made them extremely vulnerable”[10].

In questo senso ciò che è maggiormente rilevante non è tanto la legittimità della scelta della categoria dei “developing countries”, quanto piuttosto l’interesse dimostrato da molti autori nei confronti della risposta sociale attivata da comunità umane contraddistinte da un analfabetismo diffuso, da un’organizzazione sociale basata sul villaggio, da una dipendenza e un grado di occupazione nel settore primario molto rilevanti e da un profondo legame quotidiano - nella localizzazione delle abitazioni e nelle pratiche economiche a fini di sussistenza - con una risorsa idrica potenzialmente rischiosa.

Tali aspetti non rappresentano unicamente la componente metodologica della letteratura sul rischio alluvionale, ma si riferiscono direttamente ad alcuni aspetti centrali della riflessione di natura epistemologica ad essa sottesa. Si consideri, ad esempio, la scelta di seguire la procedura standard (descrizione del sito, individuazione delle interazioni tra i due sistemi, presentazione degli eventi catastrofici, descrizione dell’impatto sul sistema sociale e infine analisi degli adjustment – qui definiti come materializzazione della risposta sociale - o delle misure gestionali); a tale preferenza di metodo corrispondono alcuni elementi sempre verificabili. Vale a dire il ruolo basilare delle caratteristiche del sistema naturale e dell’azione umana all’interno della catena concausale che genera un rischio. In seconda misura, la corrispondenza tra il grado misurabile dell’impatto antropico - di natura essenzialmente tecnologica - sul sistema naturale e la capacità collettiva di sviluppare misure difensive più o meno sofisticate. A questo aspetto, nella prospettiva del Modello dell’Ecologia Umana, corrisponderebbero differenti livelli di sviluppo economico dei sistemi sociali coinvolti. Se il fine della ricerca risiede nella descrizione, nella valutazione e conseguentemente nel miglioramento, dell’impianto di adjustment esistenti ne consegue che il ricercatore tenda ad indirizzare il suo studio sulla comprensione dei meccanismi che governano lo l’utilizzo antropico del territorio e la risposta sociale al rischio (R-W. Kates, 1971). Motivo per il quale non solo ricorre alla struttura standard sopra descritta ma si rivolge nella scelta del caso a regioni colpite da eventi di grande magnitudine, nelle quali la quantificazione della vulnerabilità del sistema sociale dia spazio alle sue stime sull’efficacia della risposta sociale e ponga al centro la valutazione dell’impatto causato dall’alluvione. Infatti tale procedura si dimostra particolarmente efficace nel tentativo di mettere in evidenza come una catastrofe diventa, o meno, un disastro sociale; vale a dire di come, seguendo il Modello dell’Ecologia Umana, una comunità umana sia in grado di rispondere in condizioni di rischio a seconda del livello di adjustment di cui è dotata.

 

Cuadro 1
Sintesi della revisione bibliografica effettuata sui contributi dedicati al flood hazard tra il 1980 e il 2005

Parametri

Numero articoli associati al parametro

Percentuale sul totale degli studi di caso raccolti (102 articoli)

1. Attenzione alla gestione del rischio

82

80%

2. Esposizione della ricerca secondo lo schema-standard

33

32%

3. Scelta di studiare regioni localizzate in developing countries

36

35%

4. Obiettivo esplicito: descrizione dell’impatto di un big event sul sistema sociale

41

39%

Fuente: Elaboratión  propia

 

Infine si rileva un profondo legame tra la natura metodologica e i temi e gli obiettivi che contraddistinguono tale modus operandi; secondo una prospettiva che tende, ha teso negli anni, a verificare l’esistenza di un modello universale che possa descrivere i legami tra percezione privata, comportamento sociale e trasformazione del territorio, anche in presenza di significative differenze culturali e nella geografia umana delle regioni studiate.

Relativamente ai punti messi in luce da tale rilettura sintetica è possibile sviluppare diversi livelli di critica. Il primo concerne la difficoltà, applicando tale modello di studio, di includere all’interno dell’analisi alcune implicazioni legate al rischio e riferibili direttamente alla sfera culturale. Tale critica è stata mossa in numerose occasioni (M. Douglas y A. Wildavsky, 1983; M. Schwarz y M. Thompson, 1993; C. Johnson, S. Tunstall y E. Penning-Roswell, 2005) Questi autori hanno sottolineato, in modi differenti, ma sostanzialmente concordi, la mancanza di considerazioni riguardanti il peso che le variabili culturali esercitano nella costruzione sociale e culturale del rischio (B-B. Johnson y V-T. Covello, 1987). Alla luce delle connessioni mostrate tra il Modello dell’Ecologia Umana e la letteratura degli anni Ottanta e Novanta, sembra possibile estendere tale livello di critica all’intero approccio adottato, per oltre un ventennio, negli studi di caso dedicati ai flood hazard. Il secondo livello di critica si riferisce nello specifico al risultato che si ottiene impostando lo studio del flood hazard secondo la metodologia definita come standard. L’analisi dell’interazione tra i due sistemi, la trattazione della geografia umana del sito (o della regione) colpita, unita alla stima dell’impatto che segue la catastrofe, genera automaticamente un percorso eminentemente descrittivo, anche qualora si concentri in profondità sulla valutazione della vulnerabilità del sistema sociale. In questo senso la metodologia discussa nel precedente paragrafo non può essere considerata come la base per una lettura del rischio fondata sulle categorie del pensiero geografico, in quanto difficilmente consente l’analisi dei meccanismi attraverso i quali si genera e si consolida la rappresentazione e la costruzione sociale del rischio, entrambi fenomeni culturalmente determinati. A questo scopo la domanda fondamentale sarebbe: come è possibile ripensare la struttura e l’impianto scientifico qui discussi?

Due momenti auto-riflessivi

Recentemente pare siano emersi due momenti autoriflessivi, tra le pieghe della supremazia teorica e metodologica anglo-statunitense.

Innanzitutto lo studio della sfera immaginativa e pubblicamente condivisa attraverso la quale si genera il meccanismo di stigmatizzazione dell’oggetto e della regione coinvolti. Studio riconducibile al “Modello dell’Amplificazione Sociale del Rischio” (J-X. Kasperson y R-E. Kasperson, 1996, 2005a; J-X. Kasperson, R-E. Kasperson y N. Jhaveri, 2001). In secondo luogo l’analisi degli eventi alluvionali come protagonisti della storia politica delle regioni coinvolte, direzione seguita dai ricercatori del Flood Hazard Research Centre (FHRC) dell’Università di Middlesex in Inghilterra.

Si prende in considerazione il primo impianto teorico, sviluppato nell’arco di un ventennio dal gruppo di studiosi riconducibili a R-E. Kasperson. Esistono alcune versioni del modello, una delle più datate è contenuta in un lavoro della fine degli anni Ottanta. Per chiarezza viene considerata una delle versioni più recenti contenuta nel volume Social Contours of Risk  (J-X. Kasperson y R-E. Kasperson, 2005a). Gli autori si pongono dei quesiti fondamentali: perché alcuni eventi catastrofici diventano tanto importanti da condizionare i comportamenti sociali? e perché tali comportamenti agiscono anche sulla natura materiale del rischio?

La risposta è racchiusa nell’intuizione di collegare l’evento catastrofico al comportamento sociale per mezzo di una catena, che nel loro caso assume una forma progressiva. Durante tale progressione l’evento rischioso interagisce con le dimensioni socio-culturali e si propaga all’interno del sistema sociale attraverso due canali preferenziali: il trasferimento dell’informazione sull’evento e l’attivazione dei meccanismi di risposta difensivi (J-X. Kasperson, R-E. Kasperson y N. Jhaveri, 2001). Gli autori spiegano che:

“the main thesis is that events interact with psychological, social and cultural processes in ways that can heighten or attenuate public perceptions of risk and related risk behavior[11].

Una volta innestata, la catena di propagazione o riduzione attraversa alcune fasi analizzate dal modello. Alla base dell’idea di descrivere la relazione tra rischio, informazione e immagine geografica nei termini di un processo di propagazione, nasce dalla considerazione che gli schemi comportamentali - pubblici e privati - generano conseguenze sociali ed economiche sul sistema coinvolto, ma, contemporaneamente, svolgono il ruolo di agenti che accrescono o diminuiscono la natura fisica del rischio stesso. Questi effetti secondari causano, secondo gli autori:

“additional institutional response and protective actions […] the social structures and processes of risk experiences, the resulting repercussions on individual and group perceptions, and the effects of these responses on community, society and economy compose a general phenomenon”[12].

Questo modello sarebbe dunque in grado di connettere un’ampia gamma di elementi – ad esempio il tema della percezione privata e lo studio delle risposte sociali - all’analisi del ruolo giocato dai media e dalle pratiche pubbliche di rappresentazione del rischio.

Tuttavia gli aspetti che lo rendono ancora più interessante vanno ricercati altrove. Innanzitutto nell’individuazione degli elementi che maggiormente interagiscono nel processo di amplificazione o riduzione. Ad esempio la compresenza di diverse forme di organizzazione sociale e delle relazioni che si instaurano tra di esse sia in fase di preparazione sia in fase di emergenza. La natura di queste organizzazioni, come mostrato anche da Dynes (R-R. Dynes, 1970), è eminentemente politica e svolge un ruolo fondamentale nell’influenzare i comportamenti comunitari e le immagini geografiche condivise. Secondariamente risulta molto importante il ruolo attribuibile all’immagine connessa allo specifico tipo di evento catastrofico. Gli autori collocano questo livello di analisi all’interno della categoria del “signal value(Kasperson y R-E. Kasperson, 2005a), affermando che l’impatto di una catastrofe non è né unicamente fisico né si riversa esclusivamente  sulla sfera organizzativa, ma è principalmente un’azione che si esercita, e si espande, nel campo della sfera immaginativa e pubblicamente condivisa, attraverso, e qui emerge l’ultimo aspetto di novità, un meccanismo di stigmatizzazione dell’oggetto e della regione coinvolti nella catena-hazard. Il modello può aiutare a leggere le ricadute territoriali del processo attraverso il quale un sistema sociale reagisce ad una condizione di rischio. Infatti sono chiamate in causa, da una parte le conseguenze territoriali conseguenti alle scelte politiche e dall’altra la costruzione di un immagine geografica - costruita essenzialmente a livello pubblico - inequivocabilmente connessa all’esistenza di un rischio, potenziale o effettivamente realizzato.

Relativamente al secondo momento auto-riflessivo sopramenzionato, in questa sede si discute l’interesse di alcuni degli esponenti del FHRC nei confronti del tema delle decisioni politiche e degli impianti normativi elaborati in seguito ai major floods in Gran Bretagna. Ci si riferisce in particolare all’interessante lavoro di sintesi incluso nei due volumi pubblicati nel biennio 2004-5: A model of incremental and catalytic policy change: from land drainage to flood risk management (2005a) e Crises as catalysts for adaptation: human response to mayor floods (2005b). L’obiettivo delle ricerche, condotte sulle più importanti serie storiche alluvionali registrate in Inghilterra e Galles negli ultimi sessant’anni, è stato quello di sviluppare un modello analitico che spiegasse l’impatto dei grandi eventi sulle politiche a lungo temine delle amministrazioni locali e centrali (C. Johnson, S. Tunstall y E. Penning-Roswell, 2005a), nella convinzione che la connessione tra flood hazard e cambiamenti politici possa aiutare la comprensione della risposta sociale ed a fornire un quadro duraturo, e non meramente circostanziato, che descriva i comportamenti dei principali key actor coinvolti nel processo decisionale.

Porre la risposta politica al centro della ricerca genera un risultato assai rilevante, vale a dire la considerazione della dimensione locale, in parallelo a quella nazionale o sovra-regionale. Si tratta di un’ottica che permette uno scarto rispetto allo studio della gamma delle possibili risposte sociali che entrano in gioco in caso di rischio, poiché l’attenzione viene posta primariamente sul dibattito tra normative locali e nazionali, oltre che sulla forza esercitata da una condizione cronica di rischio sul mutamento della direzione dell’azione politica sul territorio. In questo modo viene, definitivamente, legittimato lo studio degli adjustment immateriali, come ad esempio le norme o le istituzioni di aree protette, alla pari del tradizionale ricorso alla valutazione delle misure infrastrutturali o comportamentali come centro della ricerca rivolta alla risposta alle condizioni di rischio. Dunque lo studio viene diretto al legame tra le questioni locali della geografia politica e la risposta sociale al rischio, non solo in senso generico ma soprattutto considerando il rischio come anello cardine di questo legame. Privilegiando tale prospettiva è ben evidente che lo studio del discorso politico, inteso come possibilità di leggere una norma (o qualunque misura immateriale) in quanto rappresentazione dell’azione politica sul territorio, diventa l’anello fondamentale per comprendere quale immagine, e di conseguenza, quale comportamento si affermi all’interno delle comunità umane colpite.

Rischio e immagine geografica

Si ritiene che tali momenti auto-riflessivi soprattutto in ragione del fatto che siano maturati nel cuore del sistema che ha contribuito ad auto-riprodurre la supremazia anglo-statunitense, possano essere considerati come punti di partenza per tentare di seguire un’impostazione alternativa a ciò che per oltre due decenni è stato considerato come “geografia del rischio”.

L’obiettivo primario consiste nell’applicare - anche al tema del rischio -  uno studio rivolto alla sfera dell’immateriale e alla sfera dell’immagine geografica pubblicamente costruita. Nella convinzione che la via da seguire debba passare attraverso la valutazione del processo di attribuzione di senso - riconducibile agli attori sociali – dei segni antropici presenti sul territorio, anche oltre l’attenzione rivolta per anni  ai meccanismi legati alla percezione del rischio. Come è già stato mostrato dalle altre scienze sociali (antropologia e sociologia) grazie alle quali è stato possibile estendere lo sguardo oltre che alla valutazione del rischio anche alla sfera del socialmente costruito.

In altre parole si intende dimostrare che è possibile pensare un percorso di ricerca strutturato in due fasi. In primo luogo un’osservazione dei meccanismi attraverso i quali la risposta sociale si materializza in un territorio (a livello infrastrutturale) o diventa pratica sociale (a livello normativo). In secondo luogo, soprattutto grazie alla lezione fornita da Kasperson e Covello circa l’associazione tra stigma e luogo (B-B. Johnson  y  V-T. Covello, 1987; Kasperson y R-E. Kasperson, 2005a), una lettura dei processi che governano la trasformazione di tale impianto in una struttura semantica peculiare, focalizzandosi sull’indagine di quali significati politici e sociali tale semantica possa rivestire nel tempo. L’elemento più rilevante risiede nel fatto che tale riflessione è applicabile sia nel caso in cui il rischio si materializzi sia nel caso in cui l’assenza dell’evento diventi la condizione di vita abituale delle comunità umane colpite in precedenza da una serie storica alluvionale. Ciò che risulta fondamentale, infatti, non è l’effettiva evoluzione, e conseguente impatto, della catastrofe, quanto la costruzione di un territorio e la significazione di un paesaggio in presenza di tale tipologia di rischio.

Questa prospettiva è applicabile, infatti, sia allo studio di un processo socio-culturale - quale la dotazione di senso ad una struttura semantica presente sul territorio - sia alla valutazione di un’azione di natura politica - quale la materializzazione di una volontà di controllo attribuibile alle comunità umane che si sviluppano a contatto con il rischio alluvionale -. In altre parole è possibile studiare i meccanismi di costruzione e rappresentazione del territorio che si sono generati e riprodotti in presenza di un’azione umana associata all’esistenza di un rischio alluvionale.

Flood hazard e floodscapes

L’ipotesi fondante del presente contributo va ricercata nella possibilità di applicare il livello di analisi discusso nel precedente paragrafo, soprattutto nei casi in cui siano visibili sul territorio delle forme geografiche di carattere difensivo nei confronti delle piene fluviali. Cioè nel caso in cui ci sia una, o più, istituzioni politiche deputate alla pianificazione della risposta sociale (R-W. Kates, 1971) e, di conseguenza, sia percepibile sul territorio la loro azione rivolta alla trasformazione delle forme geografiche locali. Dunque ponendo al primo livello di lettura i medesimi elementi sui quali si è focalizzato lo studio della risposta sociale riconducibile alla teoria della scuola statunitense. Cercando, attraverso questa scelta critica, di mostrare come esistano vie alternative di natura epistemologica e metodologica nello studio geografico del rischio alluvionale.

Qualora si riscontrino tali condizioni si ritiene che la risposta sociale possa essere considerata come l’elemento generatore di una specifica forma di paesaggio costruita al fine di rappresentare la volontà di controllo e di gestione del territorio, o di trasformazione dell’immagine geografica locale. In altre parole che sia possibile parlare di paesaggi del rischio alluvionale (floodscapes).

Si ipotizza che la volontà politica e la conseguente materializzazione della risposta sociale sul territorio - in presenza di un rischio cronico - non solo contribuiscano ad influenzare i comportamenti sociali e privati, tramite la loro azione diretta sulla percezione [R-W. Kates, 1962; P. Slovic, 2000)  ma possano essere letti come il risultato di un cambiamento - o di una costante – nel processo di dotazione di senso ai segni antropici presenti sul territorio. In questo senso appare chiaro che tale operazione riveste un ruolo fondamentale nell’evoluzione di un paesaggio creato  - e dotato di senso - su un territorio sottoposto a rischio. Si tratta di un’azione cha va oltre la reificazione dell’impianto adattivo di una comunità e delle sue strategie materiali e immateriali di difesa (R. Geipel, 1977), e il cui fine è più complesso rispetto alla valutazione dell’incidenza delle pratiche sociali sui meccanismi di amplificazione o riduzione del rischio (Kasperson y R-E. Kasperson, 2005a). Infatti tale azione consente alle volontà politiche, e agli attori sociali, di rappresentarsi in quanto soggetti determinanti nel processo che lega il rischio alle trasformazioni territoriali. Pur traendo le mosse dai due momenti auto-riflessivi sopra discussi  - soprattutto allo scopo di superare i confini della legacy anglo-statunitense - l’impostazione qui auspicata procede in una direzione differente, cercando di connettere i tre elementi fondamentali per la lettura del paesaggio in presenza di rischio alluvionale: azione politica, risposta sociale e immagine geografica prodotta pubblicamente.

Si propone una descrizione sintetica degli elementi sui quali si basa tale prospettiva teorica. Le comunità umane, a livello privato e a livello politico, rispondono ai meccanismi interattivi che si innescano nella relazione con un rischio ambientale, producendo artefatti materiali e immateriali (M. Cole, 2004). Tali creazioni antropiche svolgono differenti funzioni: controllo fisico, celebrazione, stigmatizzazione, controllo normativo e pianificazione territoriale. Attraverso lo studio degli artefatti presenti, ma soprattutto del loro significato in quanto segni umani sul territorio, si può cercare di indirizzare la ricerca verso la comprensione di come vengano elaborati specifici paesaggi del rischio. Tali paesaggi sono concepiti come processi in divenire grazie ai quali, attraverso la descrizione dei meccanismi di attribuzione di senso da parte degli attori sociali, è possibile comprendere le direzioni seguite dall’azione, o dalla non-azione, umana su un territorio soggetto a rischio cronico.

Una prima conseguenza di tale riflessione è che il floodscape non possa essere letto quale forma peculiare della categoria, ormai consolidata, dei paesaggi politici (J-B. Jackson, 1984), soprattutto perché nella sua costruzione e significazione interagiscono componenti diverse e non sempre riconducibili alle volontà politiche dominanti. Il paesaggio del rischio deve essere considerato una struttura semantica all’interno della quale è possibile leggere la direzione - materiale e simbolica - assunta dalla risposta sociale al rischio, in quanto frutto di scelte assunte - e rappresentazioni prodotte - dai principali attori sociali coinvolti nello hazard. Di seguito si cerca di fornire una descrizione di tale struttura semantica[13]. Innanzitutto si propone una modellizazione che descrive il processo di costruzione del floodscape.

Nel modello (Cuadro 2), ASP, vale a dire un attore sociale-politico (istituzioni locali, operatori territoriali, ecc.) - attraverso un lavoro (L) che è guidato dalla volontà (V) di controllo e rappresentazione della propria autorità e dei propri interessi sul territorio, in presenza di una relazione tra rischio H e ambiente sociale (Sn/So), accumula e dota di senso una serie di artefatti (A). Tali artefatti - materiali ed immateriali - sono riferibili in qualche misura alla dimensione territoriale in quanto oggetti fisici, impianti normativi locali oppure elementi costitutivi della produzione di discorso a livello pubblico: celebrazioni pubbliche ed azioni di promozione territoriale. Attraverso tale natura duale (M. Cole, 2004), rappresentata dalle lettere M/R, gli artefatti costituiscono le cellule fondamentali della struttura semantica del floodscape.

 

Cuadro 2
Modello Ideale della Costruzione del Floodscape

Asp (L-V) ----- H ----- S (Sn/So) = A ----- M/R ----- FS

Fuente: Elaboratión propia -  dal  “Modello della produzione territoriale” (C.  Raffestin, 2005)

 

Si è osservato, attraverso uno studio di caso effettuato lungo l’asta del fiume Po coinvolta dalla più recente serie storica alluvionale italiana (1994-2000), che lo sviluppo di questo modello può interessare quattro differenti processi: 1 accumulazione sul territorio di segni direttamente riconducibili alla risposta sociale al rischio; 2 significazione di tale struttura semantica da parte degli attori sociali e dei soggetti politici; 3 ri-significazione della struttura semantica pre-esistente; 4 istituzione di oggetti immateriali (norme, pianificazioni) che mirano alla costruzione di una nuova immagine locale che sia in grado di superare la stigmatizzazione legata al rischio.

Nello studio del floodscape si devono tenere, inoltre, in considerazione alcuni aspetti strettamente connessi all’idea di struttura semantica come processo in divenire. Innanzitutto il legame tra relittualità e semantica, vale a dire la presenza di elementi materiali accumulati sul territorio in differenti momenti della serie storica e non sempre riconoscibili come segni dell’esistenza di un effettivo rischio.  In secondo luogo il momento del floodscape locale, in altri termini la concreta possibilità che solo alcuni elementi della semantica siano pienamente coinvolti dal processo descritto dal Modello Ideale. Infine, le peculiarità del caso preso in esame, infatti la lettura delle trasformazioni territoriali in presenza di rischio utilizzando il modello sopradescritto è subordinata all’individuazione delle caratteristiche specifiche - ancora in fase di definizione - che descrivono il rapporto tra sistema antropico e rischio alluvionale (ad esempio la durata della serie storica, il livello di sviluppo delle misure difensive, i conflitti tra gli attori sociali, ecc.).

Tornando alla questione posta in apertura riguardo l’opportunità di individuare i contorni di una “geografia del rischio”, dalla presente riflessione emerge che, oltre allo studio della percezione del rischio (R. Geipel, 1980) e della materializzazione della risposta sociale, è possibile individuare una via alternativa  per l’analisi del processo attraverso il quale le istituzioni politiche e gli attori sociali costruiscono e dotano di senso l’immagine geografica di una regione soggetta a rischio alluvionale. Si tratta, secondo l’autore, di una prospettiva tutt’altro che marginale che meriterebbe successivi approfondimenti, oltre che ulteriori applicazioni a nuovi casi di studio.

Rischio e paesaggio: una relazione legittima

Il contributo si chiude sottolineando alcuni elementi che contribuiscono a legittimare l’approccio seguito.

Innanzitutto si sottolinea che la fluidità – sinonimo di mutevolezza e non di incompiutezza - della categoria in questione (il paesaggio del rischio alluvionale) non deve essere considerata unicamente come un interessante oggetto di speculazione. Infatti da tale caratteristica deriva l’elemento basilare grazie ai quali è stato possibile coordinare la riflessione teorica con le scelte metodologiche qui adottate. Ovvero la legittimità di considerare il paesaggio contemporaneamente come:

 “oggetto - materializzazione dell’azione antropica sul territorio - rappresentazione dell’oggetto e discorso sull’oggetto”[14].

Vale a dire la possibilità di leggere la struttura semantica - e i rapporti in essa esistenti - che compone un floodscape, in quanto oggetto esperibile, dunque categorizzabile nei suoi elementi costitutivi, come rappresentazione della dinamica che lo ha generato e trasformato, e, soprattutto, in quanto pratica discorsiva attraverso la quale è possibile studiare la funzione esercitata dalla politica sul territorio. Cioè di comprendere la posizione che questo sistema di segni occupa nella costruzione dell’immagine geografica di una regione soggetta a rischio alluvionale.

Infine si ribadisce che - oltre all’utilità di cercare una direzione personale all’interno dei più recenti sviluppi della letteratura - un punto di partenza proficuo possa consistere nel porsi nuove domande, o meglio nel porsele ad un differente livello di lettura. Domande che ruotino intorno alla convinzione della piena legittimità di una prospettiva, basata sullo studio dei flood hazard in differenti condizioni socio-geografiche, in grado di proporre un’alternativa agli studi rivolti esclusivamente alla valutazione della risposta sociale ed alla descrizione dell’impatto degli eventi alluvionali.

 

 Note

[1] Nel contributo la citazioni sono state mantenute nella lingua originale. Tale scelta è in linea con l’intenzione di discutere - rimanendo fedeli all’idioma di riferimento - la supremazia anglo-statunitense.

[2] U. Beck, 2000, p.  213.

[3] S-L.  Tamsin, 1998, p. 11.

[4] R-W. Kates, 1971, p.  438.

[5] Gli elementi cardine di tale standardizzazione sono discussi nel paragrafo seguente.

[6] Non tutte le riviste coprono l’intero arco temporale preso in considerazione, ma ciò non inficia le considerazioni espresse nel corso del paragrafo.

[7] In alcuni casi, come ad esempio in Italia, parlare di “scuola geografica” può essere considerata una forzatura non motivata dall’effettivo sviluppo degli studi pubblicati dai geografi nella propria lingua madre. In realtà nel caso presente tale espressione è stata usata seguendo la prospettiva contenuta nella citazione di D. Sauri-Pujol e A. Ribas-Palom qui menzionata e, soprattutto, come elemento unificante di alcuni studi pubblicati nei tre differenti stati europei.

[8] Si tratta sempre di un riferimento diretto, salvo alcuni limitati casi nei quali il flood hazard è menzionato anche se non si analizza nello specifico un’unica tipologia di rischio.

[9] Tutti gli estratti sono contenuti in: G-F. White, 1974, p. 5.

[10] S-M. Nurul Alam, 1990, p.  355. Corsivo dell’autore.

[11] J-X. Kasperson y R-E. Kasperson, 2005a, p. 101.

[12] J-X. Kasperson y R-E. Kasperson, 2005a, p. 101

[13] Tale descrizione deriva da uno studio di caso condotto dall’autore durante un Dottorato di Ricerca in “Modelli, Linguaggi e Tradizioni nella Cultura Occidentale” svolto tra il 2005 e il 2007 all’Università di Ferrara.

[14] dell’Agnese, 2004, p. 261. Corsivo dell’autore

 

Bibliografia

ADAM, B.; BECK, U. y VAN LOON, J. edits., The Risk Society and Beyond, Critical Issues for Social Theory, London: SAGE, 2000.

ALEXANDER, D. Calamità naturali e rischi associati: sviluppo del campo nel mondo anglofono e valutazione del suo potenziale scientifico. In BOTTA, G. edits.,  Prodigi Paure Ragione, Milano: Guerini, 1991, pp. 107-122.

BECK, U. Risk Society: Towards a New Modernity, London: SAGE, 1992.

BECK, U., Risk Society Revisited: Theory, Politics and Research Programs. In ADAM, B.; BECK, U. y VAN LOON, J. edits., The Risk Society and Beyond, Critical Issues for Social Theory, London: SAGE, 2000,  pp. 211-229.

BIANCHI, E. La percezione dell’ambiente: una rassegna geografica. In GEIPEL, R. et al. Ricerca geografica e percezione dell’ambiente, Milano: Unicopli, 1980, pp. 35-49.

BIANCHI, E. How safe is enough? In SCHWARZ, M. y THOMPSON, M. Il rischio tecnologico, Milano: Guerini, 1993, pp. 11-35.

BURTON, I.; KATES, W. y WHITE, G-F. The Environment as Hazard, New York: Oxford University Press, 1978.

BURTON, I.; KATES, W. y WHITE, G-F. The Environment as Hazard, New York: Oxford University Press, 1993, 2nd. ed.

COLE, M. La psicologia culturale: una disciplina del passato e del futuro, Roma: Carlo Amore, 2004.

CORGNATI, M. Rischi naturali e scuola geografica statunitense, Milano: Università degli Studi di Milano, 1989, tesi di laurea.

COVELLO, V-T.; Mc CALLUM, D-B y PAVLOVA, M-T. edits., Effective Risk Communication, New York: Springer, 2004.

DELL’AGNESE, E. Sarajevo come paesaggio simbolicoRivista Geografica Italiana, 2004, vol. 111, n° 2, pp. 259-283.

DOUGLAS, M. y WILDAVSKY, A. Risk and Culture: An Essay on the Selection of Technological and Environmental Danger, Berkley: University of California Press, 1983.

DYNES, R-R. Organized Behavior in Disaster, Lexington: Heath Lexington Books, 1970.

GEIPEL, R. Friuli. Aspetti sociogeografici di una catastrofe sismica, Milano: Franco Angeli, 1977.

GEIPEL, R. Aspetti geografici della percezione ambientale. In GEIPEL, R. et al. Ricerca geografica e percezione dell’ambiente, Milano: Unicopli, 1980, pp. 11-20.

JACKSON, J-B., A pair of ideal landscapes. In JACKSON, J-B. Discovering the Vernacular Landscape, London: Yale University Press, 1984, pp. 9-55.

JOHNSON, B-B. y  COVELLO, V-T.  edits., The Social and Cultural Construction of Risk: Essays on Risk Selection and Perception, Dordrecht: Reidel Publishing Company, 1987. 

JOHNSON, C.; TUNSTALL, S. y PENNING-ROSWELL, E. Crises as catalysts for adaptation: human response to mayor floods, London: Flood Hazard Research Centre; Middlesex University, 2005a.

JOHNSON, C.; TUNSTALL, S. y PENNING-ROSWELL, E. Crises as catalysts for adaptation: human response to mayor floods: Summary of Research Results, London: Flood Hazard Research Centre; Middlesex University, 2005b.

KASPERSON, J-X. y KASPERSON, R-E. The Social Amplification and Attenuation of Risk, Annals of the American Academy of Political and Social Science, 1996,  vol. 545, pp. 95-105.

KASPERSON, J-X. y KASPERSON, R-E. edits., Social Contours of Risk, London: Earthscan, 2005a, vol. 1.

KASPERSON, J-X. y KASPERSON, R-E. edits.,  Social Contours of Risk, London: Earthscan, 2005b, vol. 2.

KASPERSON, J-X.; KASPERSON, R-E. y JHAVERI, N. Stigma and the Social Amplification of Risk: Toward a Framework of Analysis. In FLYNN, J.; SLOVIC, P. y KUNREUTHER, H. edits. Risk, Media and Stigma. Understanding Policy Challenges to Modern Science and Technology, London: Earthscan, 2001, pp. 9-29.

KASPERSON, R-E. y PIJAWKA, K-D. Societal Response to Hazards and Major Hazard Events: Comparing Natural and Technological Hazards, Public Administration Review, 1985, vol. 45, pp. 7-18.

KATES, R-W. Hazard and choice perception in floodplain management, Chicago: University of Chicago, 1962.

KATES, R-W. Natural Hazard in Ecological Perspective: Hypotheses and Models, Economic Geography, 1971, vol. 47, n° 3, pp. 438-451.

KELLY, C. A Review of Contributions to Disasters: 1997-1996, Disasters. The Journal of Disaster Studies, Policy and Management, 1998, vol. 22, n° 2, pp. 144-156.

MALATESTA, S. Elisée Reclus: spunti di una geografia del rischio ante-litteram. In SCHMIDT DI FRIEDBERG, M. edits., Elisée Reclus. Natura e Educazione, Milano: Bruno Mondadori, 2007, pp. 128-143.

NURUL ALAM, S-M. Perceptions of Flood among Bangladesh Villagers, Disasters. The Journal of Disaster Studies, Policy and Management , 1990, vol. 14, n° 4, pp. 354-357.

PARKER, D-J. y HARDING, D-M. Natural Hazard Evaluation, Perception and Adjustment, Geography, 1979, vol. 64, n° 4, pp. 301-316.

PARKER, D-J. edits., Floods, London: Taylor & Francis Books, 2000, vol. 1.

QUARANTELLI, E-L. edits., Disasters. Theory and Research, Beverly Hills; London: SAGE, 1978. 

RAFFESTIN, CDalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio, Firenze: Anlinea Editrice, 2005.

SAURI-PUJOL, D. y RIBAS-PALOM, A. El Análisis del risego de avenida en las ecuelasgeográficas Anglosajona, Francesa y Española, Estudios Geográficos, 1994, vol. 55, n. 216, pp. 481-502.

SCHWARZ, M. y THOMPSON, M. Il rischio tecnologico, Milano: Guerini, 1993.

SLOVIC, P. edits. The Perception of Risk, London: Earthscan, 2000.

STARR, C. Social Benefit versus Technological Risk, Science, 1969, vol. 165, pp. 1231-1238.

TAMSIN, S-L. Non-Structural Food Management Solution for the Lower Fraser Valley, Burnaby: Simon Fraser University, 1998, tesi di laurea.

WHITE, G-F. Human Adjustment to Floods: a Geographical Approach to the Flood Problem in the United States, Chicago: University of Chicago, 1945.

WHITE, G-F. Papers of Flood Problems, Chicago: University of Chicago, 1961.

WHITE, G-F. Natural hazards: local, national, global, New York: Oxford University Press, 1974.

WHITE, G-F. Author’s response. In O’RIORDAN, T. y  PLATT, R-H. Classics in human geography. White, G.F. 1945: Human adjustment to floods, Progress in Human Geography, vol. 21, n° 2, pp. 249-250.

 

Referencia bibliográfica:
MALATESTA, Stefano. Dallo studio del rischio alluvionale al paesaggio del rischio. Diez años de cambios en el Mundo, en la Geografía y en las Ciencias Sociales, 1999-2008. Actas del X Coloquio Internacional de Geocrítica, Universidad de Barcelona, 26-30 de mayo de 2008.<http://www.ub.es/geocrit/-xcol/123.htm>

Volver al programa provisional