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Scripta Nova.
 Revista Electrónica de Geografía y Ciencias Sociales.
Universidad de Barcelona [ISSN 1138-9788] 
Nº 94 (18), 1 de agosto de 2001

MIGRACIÓN Y CAMBIO SOCIAL

Número extraordinario dedicado al III Coloquio Internacional de Geocrítica (Actas del Coloquio)

L'IMMIGRAZIONE NECESSARIA. APPUNTI SULLA SITUAZIONE ITALIANA

Guiseppe Campione
Dipartimento di economia statistica e analisi geopolitica del territorio
Università di Messina


L'immigrazione necessaria. Appunti sulla situazione italiana. (Resumen)

Le teorie economiche, ma anche il senso comune, suggeriscono che la migrazione dalle regioni in cui la forza lavoro è in esubero e a buon mercato verso regioni in cui è scarsa e cara, porta ad un benessere complessivo. Se c'è però un diritto di emigrare, non esiste il diritto simmetrico all'immigrazione e con diverse motivazioni aumentano le restrizioni alla mobilità internazionale. Restrizioni quindi, a fronte di un immigrazione che sembra diventare un ondata travolgente, ma anche richiesta di immigrati che aumenta e che probabilmente è destinata ad aumentare nei prossimi anni: questo il paradosso. Anche l'Italia, antico paese di emigrazione, sta diventando, in termini accelerati, un paese di immigrazione: la percentuale degli stranieri regolari però corrisponde ancora al 2 per cento circa della popolazione totale. Popolazione che dovrebbe passare dagli attuali 57,3 milioni ai 41,2 milioni di abitanti del 2050. L'allarme sociale resta un fatto complesso, quasi in controtendenza. Anche se molti vorrebbero esorcizzarla, invece, la società multietnica è alle porte.

Parole-chiave: immigrazione/ migrazioni internazionali/ previsioni demografiche/ immigrazione clandestina


The necessary immigration.  the intalian context (Abstract)

Economic theory, but also common sense, would suggest that migration from those regions with a low-paid work force surplus towards regions where the work force is in demand and highly paid, would bring about an overall well-being. However, even if there is the right to emigrate, there is no corresponding right to immigrate, and for various reasons restrictions on international mobility are ever on the increase. Restrictions therefore, in front of immigration which seems to have become a tidal wave, but at the same time, in a moment when the request for immigrants is increasing, a request which is probably destined to increase even more in the coming years: this is the paradox. Even Italy, traditionally a country of emigration, is rapidly becoming a country of immigration: the percentage of officially registered foreigners, however, only accounts for about 2 per cento of the total population. This population should go from the present 57.3 million to 41.2 million by 2050. Social alarm is a complex issue, nearly a countertendency. Even if many would like to ignore it, the multi-ethic society is here, at our door.

Key words: immigration/ international migrations/ demographical prospections/ illegal migrations


Partiamo dalla considerazione che le migrazioni, dal punto di vista strutturale, sono una risorsa perché assicurano dei vantaggi al paese di accoglienza e consentono a quelli di partenza di far parte dell'economia globale. E allora si tratta, a fronte di una immigrazione destinata, anche per i dati che esporremo, ineluttabilmente a crescere, di ravvivare le ragioni della convivenza e, sottolinea la Caritas, di "saper accogliere, mantenendo le nostre tradizioni, senza chiudersi a quello che altri ci portano". D'altra parte bisogna convenire che le politiche restrittive da sole non bastano e non basteranno in futuro a fermare la storia. Concetto ben diverso è l'esigere politiche ordinate per l'immigrazione, coinvolgendo, con accordi internazionali, i paesi d'origine soprattutto per l'angosciosa questione dei clandestini, spesso frodati nel "cammino della speranza" da organizzazioni criminali e mafiose.

L'immigrazione ineludibile e le resistenze

Il ragionamento non è nuovo. L'abbiamo sentito altre volte nella nostra pur breve storia dell'immigrazione (breve a fronte di quella di altri paesi europei). Ad esempio, 10 anni fa, il direttore degli Affari Sociali, Guido Bolaffi si chiedeva se non fosse giusto cominciare a interrogarsi sul perché anche l'Italia, come peraltro tutte le altre democrazie occidentali, sembrava incapace di sconfiggere la sempre più dilagante immigrazione clandestina. "La sola motivazione dei differenziali di sviluppo e dei livelli di sovrappopolazione non sembra, infatti, sufficiente a spiegare il fenomeno". C'è invece la saldatura tra gli interessi opposti di immigrati alla ricerca di guadagni, che per quanto infimi assicurano loro una possibilità di vita superiore a quella cui sarebbero condannati nei loro paesi, e quelli del racket che vergognosamente lucra sulla speranza, nella fuga verso le rive mediterranee d'Europa. E sempre una decina d'anni fa un demografo, Massimo Livi Bacci diceva che l'idea di usare le forze armate come polizia di frontiera è tecnicamente irrealizzabile (la sola barriera che ha funzionato in tempi recenti "è il muro di Berlino, ma lì i poliziotti sparavano), oltreché inopportuna sul piano della immagine e pericolosa perché risolvendosi, com'è prevedibile, in un fiasco finirebbe per ridicolizzare quell' embrione di politica della immigrazione che pure l'Italia cerca tortuosamente di darsi". Più che con i marinai a Capo Passero, aggiungeva il demografo, il problema dell'immigrazione andrebbe affrontato in una più ampia e meditata prospettiva che non può prescindere dai dati demografici. Il basso numero di nascite degli ultimi venti anni e il forte aumento della sopravvivenza alle età anziane stanno riducendo la popolazione italiana (ed europea) e modificandone rapidamente la struttura per età. Problemi che perciò sembrano trascinarsi da un decennio all'altro. Ma poniamo attenzione, sia pur in rapida sintesi, alle più recenti previsioni demografiche. Secondo le proiezioni dell'Onu la popolazione italiana dovrebbe scendere dagli oltre 57 milioni, ai 52 del 2020 e ai 41 del 2050. La popolazione con più di 65 anni dovrebbe passare dall'attuale 18,2 per cento al 24,1 per cento del 2020 e al 34,9 per cento del 2050. Ancora: i giovani con meno di 24 anni saranno solo il 21 per cento della popolazione.

Un modo per contrastare queste dinamiche può sicuramente essere rappresentato dalle migrazioni internazionali. L'arrivo di persone da altri paesi contribuisce, infatti, a ridurre (o a ribaltare) un saldo naturale negativo, ed è quanto da alcuni anni sta già avvenendo in Italia e in altri paesi europei; e, data la più giovane composizione dei flussi e la più elevata fecondità degli immigrati, gioca un ruolo anche nel rallentare il processo di invecchiamento della popolazione. Recentemente le Nazioni Unite hanno presentato i primi risultati di uno studio teso a valutare proprio la possibilità che le migrazioni rappresentino una soluzione ai processi di declino numerico e di invecchiamento delle popolazioni. Per restare al caso italiano, uno di quelli analizzati dalle Nazioni Unite proprio per la sua rilevanza, è stato calcolato che per mantenere al 2050 le attuali dimensioni della popolazione sarebbe necessario un flusso annuale di 240 mila immigrati. Se, invece, si volesse puntare a mantenere sui livelli attuali la popolazione tra i 15 e i 64 anni di età, l'apporto delle migrazioni salirebbe a 350 mila immigrati l'anno; infine, il flusso arriverebbe a 2,2 milioni annui se l'obiettivo diventasse quello di mantenere inalterato il rapporto tra popolazione in età lavorativa e anziani.

Sono cifre, in tutta evidenza, ben al di là di quelle che sono (e che potranno diventare nei prossimi anni) le capacità di assorbimento del sistema Italia: già oggi flussi ben più modesti creano problemi di gestione e di inserimento che mettono a dura prova le strutture esistenti. Ed è tutta l'Europa ad essere investita dalla sindrome: servirebbero più immigrati ma sono troppi (fig.1).

Figura. 1
"Ormai il nostro paese non è più in grado di accogliere immigrati, anche se regolari" (percentuali di coloro che si sono detti molto o moltissimo d'accordo)

Fonte: Indagine Fondazione Nord Est (dicembre 2000 - gennaio 2001, 8000 casi)

E le tensioni attraversano paesi perfino come la Francia che è paese di immigrazione dalla fine dell'ottocento. Ma sono solo criminalità e clandestinità all'origine della resistenza dell'opinione pubblica italiana? Il livello di paura è alto. E sembra che le disponibilità verso logiche di accoglienza, pur dichiarate, restino in molti casi teoriche. E allora non resta che muoversi in un contesto proiettato verso il futuro, facendo magari uno sforzo per ritrovare nella memoria i nostri quattro milioni di emigranti sparsi per il mondo, e far avanzare così adeguati processi di nuova comprensione del fenomeno.

Paure collettive e xenofobia

Riprendiamo alcuni dati. In Italia gli immigrati sono, calcolando anche i minori e i permessi in corso di registrazione, un milione e 700mila unità. Intorno al 3 per cento della popolazione italiana. Ci muoviamo alla stessa percentuale del Regno Unito, ma siamo molto al di sotto di Francia, Germania e Olanda che hanno percentuali di extracomunitari sul totale della popolazione del 9 per cento e della Spagna che registra una percentuale del 7,5 per cento.

Discorso a parte meriterebbero gli irregolari, che secondo le stime della Caritas, sarebbero 250mila. Forse il disagio si diffonde perché in questi ultimi anni il numero degli ingressi è aumentato vistosamente (il 2000 ha visto un aumento rispetto all'anno precedente di 137mila unità), forse è per via dei clandestini e delle intermediazioni criminali e mafiose, forse è perché i clandestini, anche a prescindere dalle modalità di ingresso, rappresentano il 25 per cento della popolazione carceraria. Quest'ultimo dato, confermato a dicembre dal Ministro degli interni, attesterebbe di una certa tendenza criminogena, che poi si tira dietro atteggiamenti di rifiuto generalizzati e, spesso, rozzamente pregiudiziali. Il tutto diventa, più o meno consapevolmente, paura. Ed il discorso non è nuovo. Nel '91, ad esempio, il politologo Gian Enrico Rusconi, scriveva, commentando un Colloquio internazionale, tenutosi al Goethe Institut di Roma, sul tema "Immigrazione in Europa - Impatto culturale e problemi di cittadinanza": -La xenofobia in Europa non è più soltanto un sentimento latente appena afferrabile. Sta prendendo forma politica. Ancora minoritaria, come circoscritti rimangono gli attacchi razzisti. Ma sono attacchi efficaci nel creare un clima di intimidazione. Attivano latenti e silenziose complicità. Oggetto della paura collettiva è l'immigrazione extracomunitaria, rafforzata ora da quella dall'Europa orientale, annunciata con una campagna giornalistica di allarme con pochi precedenti. La maggioranza della popolazione dice di rifiutare ogni forma di razzismo; continua a dichiarare i suoi buoni sentimenti di comprensione umana e sociale. Ma negli atteggiamenti pratici è estremamente incerta e reticente. Vede nell'immigrazione innanzitutto un fattore di degrado socio-economico del proprio ambiente sociale. Come si vede, i temi che caratterizzeranno il decennio successivo ci sono tutti. Ci riferiamo in particolare, attualizzando l'analisi, al 2° Rapporto della fondazione Nord Est, sul tema "Gli immigrati e i diritti di cittadinanza in Europa", presentata a fine febbraio al Presidente Ciampi dal suo coordinatore, il sociologo Ilvo Diamanti, editorialista de Il sole 24ore.

La Fondazione Nord Est ha, fra gli obiettivi ispiratori, l'attenzione alle questioni relative al processo di integrazione europea, con particolare riguardo al rapporto fra le tendenze demografiche, quelle socioculturali e le istituzioni.

L'indagine realizzata si è fondamentalmente ispirata a diversi tipi di obiettivi. Evidenziamone alcuni in rapida sintesi. Il primo è l'intento di delineare i sentimenti della popolazione verso gli immigrati, la concezione della cittadinanza e l'importanza attribuita all'Europa, come riferimento per le strategie di integrazione. Il secondo obiettivo ha cercato di individuare i fattori culturali, politici, economici e istituzionali che favoriscono e inibiscono la drammatizzazione del fenomeno migratorio. La ricerca, realizzata nei mesi di dicembre 2000 e gennaio 2001 e che ha visto coinvolti 8.000 intervistati, è avvenuta mediante un sondaggio svolto da alcune fra le più autorevoli agenzie demoscopiche europee, su un campione rappresentativo della popolazione di cinque paesi europei: Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Italia e in tre paesi candidati all'ingresso nell'Unione europea: Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca.

Partiamo dai sentimenti verso gli immigrati (tolleranze e paure, dice il rapporto). Poco meno di un terzo dei cittadini della UE considera l'immigrazione un pericolo oppure una minaccia. Il 26 per cento verso la cultura e l'identità nazionale. Il 32-33 per cento verso l'occupazione e verso la sicurezza delle persone. In assoluto, l'Italia e la Gran Bretagna appaiono i paesi della UE in cui il fenomeno suscita le maggiori preoccupazioni in ambito sociale. Circa il 60 per cento dei cittadini intervistati, in entrambi i casi, reputano che il "paese non è più in grado di accogliere immigrati, anche se regolari". La Spagna, per contro, è il paese in cui il problema appare maggiormente sotto controllo, visto che la quota di chi valuta impossibile proseguire nella strada dell'accoglienza è circoscritta al 44 per cento.

Nella UE, l'Italia risulta il paese dove la preoccupazione per il fenomeno migratorio suscita maggiore preoccupazione in quanto collegato ai problemi dell'ordine pubblico e della sicurezza personale. In Gran Bretagna, invece, l'immigrazione è identificata anzitutto come un problema per l'identità e per l'occupazione. La Germania e la Francia mostrano, invece, valori più simili alla media. Anche se, in proporzione, i francesi temono l'immigrazione soprattutto come una minaccia alla sicurezza delle persone, mentre i tedeschi (in particolar modo quelli dell'Est) la percepiscono particolarmente in rapporto all'occupazione. Infine, la Spagna è il paese che presenta l'atteggiamento meno reattivo, sotto ogni profilo. Ma è anche quello che ha registrato i sussulti più sensibili, assieme alla Gran Bretagna. Al contrario, in Italia, il paese che l'anno scorso mostrava gli indici di timore verso l'immigrazione più elevati, è anche quello che oggi fa osservare gli scostamenti minori. E, anzi, in rapporto all'insicurezza personale e all'identità, un limitato calo di paura.

Dunque, in Europa si osserva un clima di diffusa preoccupazione verso gli immigrati. Soprattutto e tanto più dove le condizioni dell'economia e la precarietà delle istituzioni fanno percepire i flussi che provengono dall'esterno come minacce per l'occupazione e per la sicurezza delle persone. Il che non costituisce, peraltro, un fattore di inibizione per l'integrazione sociale. Spinge, tuttavia, a diffondere fra i cittadini la domanda di imporre agli immigrati il rispetto delle norme e dei valori che vigono nei paesi in cui risiedono. Una domanda di coesione, che investe la stessa sfera delle credenze religiose. Otto cittadini europei su dieci ritengono, infatti, giusto che gli emigranti si adeguino ai riferimenti normativi e di valore dominanti dei paesi in cui vanno a vivere, anche se contrastano con la loro tradizione e la loro religione.

Riassumendo potremmo dire che l'immigrazione oggi costituisce un problema sentito in tutti i paesi. Nella UE, come in quelli del Centro-Europa, destinati a entrarvi nei prossimi anni. Un problema che coinvolge l'opinione pubblica, e in quanto tale diventa di rilevanza politica, in vista delle scelte comunitarie: l'integrazione fra i paesi membri e l'allargamento. L'immigrazione coinvolge e divide il sentimento della popolazione, un po' dovunque, anche sul piano interno.

In generale, non sembra che l'allarme sia complessivamente cresciuto; che abbia assunto punte estreme, rispetto al passato. Investe, complessivamente, circa il 30 per cento dei cittadini. Ma si assiste a una certa convergenza, spinta dall'affermarsi del problema anche dove, come in Spagna e Gran Bretagna, sollevava un minore livello di preoccupazione. Ogni paese, peraltro, proietta nel fenomeno dell'immigrazione le sue specifiche tensioni, le sue specifiche paure: per la sicurezza e l'ordine pubblico, in Italia; per l'occupazione, in Germania e in Spagna; per l'identità, in Francia e in Gran Bretagna. Nei paesi dell'Europa centro-orientale la paura appare ancora più elevata. Perché riflette l'instabilità di un'area attraversata da profondi e rapidi mutamenti. Come dimostra, non a caso, l'inquietudine forte che pervade la Repubblica Ceka. Le paure suscitate dall'immigrazione riverberano i timori sollevati dall'internazionalizzazione, dalla globalizzazione. E dalla paura di "importare", assieme alle persone, anche i conflitti e le crisi che hanno investito, in questa fase, molti punti del continente. Si spiega anche in questo modo la sfiducia espressa in tutti i paesi indagati verso le persone che provengono dai Balcani e dall'ex-URSS.

Ancora le analisi della Fondazione Nord-Est

Continuiamo con il rapporto della Fondazione Nord-Est. Parlare di immigrati significa effettuare una semplificazione. Il termine, infatti, riassume gruppi di persone diverse e distinte, per etnia, identità, cultura, religione, in base alla "nostra" residenza, alla nostra collocazione. Vengono chiamati "immigrati" perché "migrano" da "altre" aree, da "altri" paesi rispetto al nostro. Tuttavia, nei paesi in cui arrivano e risiedono gli immigrati, per lavoro o per altre ragioni, vengano differenziati per il loro atteggiamento e la loro immagine in base all'area di provenienza. Si configure cosí, una "geografia della fiducia" o ancor più, della "sfiducia" verso gli immigrati che ne riflesso que il contesto d'origine. Ció condiziona la percezione e costituisce un altro fattore di semplificazione, e di distorsione. Utile de conoscere per cogliere meglio le diverse "fonti" dell'inquietudine dei cittadini.

Per semplicità, abbiamo fatto ricorso ad alcune categorizzazioni di uso corrente, non solo nel linguaggio comune, per articolare le diverse aree geografiche e politiche, o meglio, geopolitiche da cui provengono gli immigrati. Un limite chi si aggiunge ad un altro, e cioè il punto di vista che definisce le zone: la UE. Il riferimento che orienta la bussola della mappa tracciata.

Un primo aspetto che emerge, valutando la fiducia dei cittadini nei confronti degli immigrati considerati per area di provenienza, è che, in generale, si conferma il divario fra i paesi della UE e quelli centro-orientali. I quali ultimi mostrano un atteggiamento assai più freddo e ostile, nei confronti degli immigrati, qualsiasi ne sia la provenienza.

In entrambe le aree, il maggior grado di fiducia è rivolto alle persone dell'Unione Europea: verso cui nutrono stima il 71 per cento dei cittadini dei paesi della UE e il 59 per cento di quelli dell'EuCO. Il che significa, però, che un terzo dei cittadini della UE guardano con sospetto coloro che provengono da altri stati dell'Unione. Un aspetto già emerso nella prima ricerca. Confermato quest'anno. Segno, al di là di altre valutazioni, dell'importanza che mantengono gli stati nazionali come riferimenti della cittadinanza e dell'appartenenza per le persone.

Le migrazioni dai paesi dei Balcani (definizione, certamente, imprecisa) e dell'ex-Unione Sovietica sono però quelle que suscitano la maggiore diffidenza, sia nei paesi della UE che in quelli dell'EuCO in cui si è svolta l'indagine. Nei paesi della UE, la quota di coloro che esprimono scarsa fiducia verso le persone in questa direzione è superiore al 55 per cento del campione (il 65% in Italia). Ma nei tre paesi dell'Europa centro-orientale, questa componente sale addirittura all'85 per cento (il 74% in Polonia, l'89% in Ungheria, il 90% in Cekia).

Più elevata, infine, appare la disponibilità espressa nei confronti delle persone che provengono dall'Est europeo. Un atteggiamento diffuso soprattutto nei paesi della UE. Mentre verso gli immigrati dai paesi in via di sviluppo (definiti, nel linguaggio comune, Terzo Mondo) l'atteggiamento nelle due aree oggetto dell'indagine varia: prevale la fiducia fra i cittadini dei paesi della UE (56% del campione), mentre esprimono sfiducia tre cittadini su quattro fra quelli dell'EuCO.

Si tratta di un quadro variegato, che riflette l'esistenza di una varietà di opinioni nei diversi paesi; ma anche il diverso significato che le aree di provenienza degli immigrati assumono per i potenziali paesi di destinazione. In generale:

a) I paesi dell'Europa centro-orientale vedono con preoccupazione ogni movimento che li interessi direttamente; ma reagiscono soprattutto a quelli provenienti dai Balcani e dall'ex Unione Sovietica: percepiti con qualche ostilità, per motivi legati alla storia politica recente; e, al pari di quelli del Terzo Mondo, con preoccupazione, per motivi di concorrenza sul mercato del lavoro. In ogni modo, gli indici di fiducia più bassi sono espressi dai Ceki; i più alti dalla Polonia.

b) Anche tra i paesi della UE le preoccupazioni più forti riguardano le migrazioni provenienti dai Balcani, in primo luogo; poi quelle che interessano l'ex Unione Sovietica. Orientamenti particolarmente presenti fra gli italiani e i tedeschi, aree di frontiera. Mentre, in generale, i livelli più bassi di fiducia si registrano in Gran Bretagna. Dove, come si è visto, è molto elevata la preoccupazione per il problema dell'impiego.

Se ne desume che ogni movimento inter-nazionale, anche all'interno del medesimo sistema –la UE– suscita, quindi, sospetto e resistenza, presso settori significativi della popolazione. Ciò per sottolineare l'importanza che mantiene la cittadinanza nazionale. In questa fase, di profondo rimescolamento, forse più di prima.

L'atteggiamento verso la cittadinanza politica

Dunque, dalla complessiva analisi di Ilvo Diamanti, in Europa sembra assumere forma e leggibilità il clima di diffusa preoccupazione verso gli immigrati. Soprattutto e tanto più dove le condizioni dell'economia e la precarietà delle istituzioni fanno percepire i flussi che provengono dall'esterno come minacce per l'occupazione e per la sicurezza delle persone. Il che non costituisce, peraltro, un fattore di inibizione per l'integrazione sociale. Spinge, tuttavia, a diffondere fra i cittadini la domanda di imporre agli immigrati il rispetto delle norme e dei valori che vigono nei paesi in cui risiedono. Una domanda di coesione, che investe la stessa sfera delle credenze religiose. Otto cittadini europei su dieci ritengono, infatti, giusto che gli emigranti si adeguino ai riferimenti normativi e di valore dominanti dei paesi in cui vanno a vivere, anche se contrastano con la loro tradizione e la loro religione (fig.2).

Un orientamento molto più esteso e generalizzato nei paesi della UE e in Polonia (condiviso da quote fra il 75% e l'84%). Mentre in Ungheria e nella Repubblica Ceka appaiono quasi dimezzati. Il che può sottolineare una scarsa attenzione attribuita in queste aree al problema della "tradizione" e (a differenza della Polonia) della "religione", come fonti di appartenenza e di riconoscimento. O, più semplicemente, lo scarso valore attribuito a questi aspetti rispetto a quelli, prioritari, del lavoro e dell'ordine pubblico. Tuttavia, il dato generale rafforza l'idea che esiste, in questa fase, una forte domanda di controllo dei fattori di disgregazione sociale e normativa, di cui l'immigrazione, indipendentemente dalla fondatezza del giudizio, è considerata tra i fattori di incentivazione.
 
 
 

Figura 2
"E' giusto che i migranti si adeguino alle norme e ai valori fondamentali dei paesi in cui vanno a vivere, anche se contrastano con la loro tradizione e religione" (percentuali di coloro che si sono detti d'accordo)
Fonte: Indagine Fondazione Nord Est (dicembre 2000 - gennaio 2001, 8000 casi)

Le analisi americane

E' un semplice errore di prospettiva, ci ammonisce il saggista Vittorio Zucconi, guardare le masse cenciose, smarrite, confuse che attraversano le frontiere delle nazioni più ricche come una minaccia mortale al benessere di chi già sta sul posto. La ricerca condotta dalla Rand Corporation per la National Academy of Science e per il Parlamento americano smentisce uno per uno —e senza alcuna intenzione di parte— tanti miti negativi che agitano tutte le nazioni occidentali esposte ai fenomeni migratori e alla sindrome del 'barbaro alle porte' dell' impero. E Zucconi così sintetizza la ricerca della Rand Corporation:

1) L' immigrazione è la stampella demografica di popoli ormai in crescita negativa e dunque incapaci di reggere il peso di Stati sociali costruiti sulla crescita demografica e sul lavoro dei giovani. Se tutti diventiamo vecchi e nascono sempre meno bambini, chi pagherà le nostre pensioni?

2) Gli immigrati non sottraggono lavoro ai residenti, al contrario occupano posizioni che i residenti non vogliono più ricoprire e si contentano di salari molto inferiori a quelli percepiti anche dai meno pagati. "La distanza fra la paga media dei lavoratori residenti e quella dei lavoratori di fresca immigrazione sta allargandosi", dice lo studio. Dunque non è vero che la fame e la disponibilità del 'clandestino' o dell' ultimo arrivato trascini in basso anche la paga dei lavoratori peggio pagati. Impone, questo è vero, una "costante riqualificazione verso l' alto del lavoro generico". In altri termini, suona la campana a morto per il posto sicuro a vita.

3) I nuovi arrivati producono beni e servizi a costi inferiori rispetto a quelli prodotti dai residenti, ma pur sempre accettabili per loro che vengono da situazioni di estrema povertà o di vera fame, e dunque offrono paradossalmente anche ai meno pagati nella scala sociale un beneficio. Svolgono un ruolo calmieratore dei costi, pure godendo di salari che, per loro, rappresentano un sicuro progresso rispetto a ciò che si sono lasciati alle spalle nel loro paese. Non è dunque un quadro di assorbimento caritatevole o generoso, questo che lo studio fotografa, ritraendo un' immagine che ha sorpreso - ha detto uno dei dodici autori, il professor Thomas Espenshade della Princeton University - anche la commissione e la Accademia nazionale delle Scienze. L' immigrato è soggetto a sfruttamento, indirizzato a lavori miserabili e mal pagati (ma lasciati vacanti dai locali), a sopravvivere in condizioni di vita marginali e ha un effetto di ovvia valvola di sfogo salariale adoperata contro le categorie di lavoratori meno qualificati. Ma quello che certamente gli immigrati non fanno è proprio quello che i residenti più temono, cioè sottrarre ricchezza. La miopia si spiega con il fatto che inizialmente i nuovi arrivati sono in effetti un peso per la collettività e un passivo. Sono quasi sempre giovani, uomini e donne, figli di culture dove la procreazione è al centro della famiglia e della coppia, dunque portano con sé, o generano, molti bambini, che abbisognano di cure mediche, che vanno a scuola, che pesano sull' istruzione pubblica, mentre i genitori pagano poche, o nessuna, tassa. I più disperati commettono piccoli crimini, furto, spaccio di droga al minuto, e aumenta la criminalità spicciola —non la grande criminalità violenta che non ha bisogno di albanesi o messicani per fare i suoi danni— dunque aggravando le spese per l' ordine pubblico, per la magistratura, la detenzione. Nei due stati che la Rand ha studiato, continua Zucconi, New Jersey e California, perché sono oggi le mete più affollate di immigrati, il costo fiscale aggiuntivo per famiglia va da mezzo milione a due milioni l' anno. Sono molti soldi e da queste cifre nasce la grande reazione emotiva anti-immigrazione. Ma dopo dieci anni di permanenza, la quasi totalità degli immigrati passa dall' essere un passivo all' essere un attivo per la collettività, producendo e pagando in tasse dirette e indirette, molto più di quel che costa. "La condizione implicita di questo assorbimento e della trasformazione in positivo delle "orde stanche e affrante e lacere" che sbarcano è tanto scontata che lo studio americano neppure menziona: è che il mercato del lavoro nel quale gli immigrati sbarcano con niente altro che non siano le loro mani, sia un autentico "mercato del lavoro", senza gabbie e muraglie che difendano i già protetti ed escludano chi è oltre il ponte levatoio.

La 'Great American Job Machine' come la chiamava Clinton, la grande macchina americana che produce due milioni di nuovi posti lavoro ogni anno dal 1990, è una macchina lubrificata, ma spietata, che soltanto macinando assunzioni e licenziamenti può permettersi di assorbire un' immigrazione che rende la calata degli albanesi in Italia al confronto, risibile: il numero complessivo di albanesi sbarcati da noi, diceva ancora nel '97 l'americanista Zucconi, è pari al numero di messicani clandestini che tentano di attraversare la frontiera degli Usa ogni giorno: 12 mila. Il vero segreto della migrazione, quando essa non sia la dantesca fuga di orde di dannati della terra nell' Africa della povertà universale, è un segreto tanto ovvio quanto difficile da digerire, che questo studio riscopre e documenta con il carisma della ufficialità: quando una nazione prospera, efficiente e ben ordinata accoglie nuovi cittadini immigrati, essa crede di fare un favore a loro, come l' America credette di farlo a irlandesi, italiani, ebrei, cinesi all' inizio del secolo. Ma nel lungo periodo sono loro, i bambini con il naso che cola e le donne con gli occhi gonfi di lacrime, a fare un favore a chi si degna di accoglierli".

La questione è europea

Nei primi anni '90 Ralf Dahrendorf, partendo dalla constatazione che dall'esterno della comunità europea "sono ormai milioni coloro che cercano di accedere ai più ricchi pascoli dell'occidente", invocava una risposta comune. "Se mai, diceva, la cooperazione europea è stata necessaria, sembra legittimo invocarla in questa materia". Ma è possibile, aggiungeva, che ci si muova con grande ipocrisia. La politica di cooperazione europea potrebbe portare a situazione più restrittive , invece che situazioni più liberali: un muro intorno alla fortezza europea. "E i governi si scrollerebbero di dosso la responsabilità dichiarandosi disponibili a essere più liberali, ma purtroppo costretti dagli altri all'irrigidimento". In altre parole: l' Europa come alibi. E allora? Nemmeno Dahrendorf riesce ad indicare un percorso ottimale. Un ripiegare su una soluzione di seconda scelta, invece. In ogni caso, consentito l'accesso ad un numero significativo di immigrati, bisognerebbe che questi vengano accolti come nuovi cittadini e non come emarginati come profughi.

Certo, tutto questo, per riferirci soprattutto all'Italia, se si supereranno le incertezze e le terribili mancanze che hanno caratterizzato per anni la nostra politica dell' immigrazione E poiché in una materia difficile e scottante come questa, scrive Guido Bolaffi, cultura di governo, capacità amministrative e consenso sociale non s' inventano solo con i buoni propositi sarà bene mettere in conto anche possibili altre future difficoltà se non vogliamo all' improvviso cadere di nuovo nel clima di allarme e di emergenza sociali che tanti guasti hanno finora prodotto.

E' sotto gli occhi di tutti la crescente difficoltà che paesi come l' Italia, ma più in generale dei paesi meridionali d'Europa, dalle frontiere esposte anche agli incerti equilibri socio-politici dell' Est post-comunista, ma soprattutto del Sud povero e sovrappopolato, hanno nel fronteggiare l' esercito di potenziali rifugiati e profughi e quello degli immigrati veri e propri. Un problema che da alcuni anni sembra in via di preoccupante moltiplicazione.

L'integrazione possibile

Tutti i governi europei in verità, sottolinea G.Caselli, concordano sul fatto che, per lo meno per gli immigrati da più tempo, si debbano creare le condizioni per una completa integrazione economica, politica e sociale: si tratta però di un affermazione di principio perché sui modi per realizzare questo principio il problema rimane aperto. Le linee guida segnate dal legislatore sembrano essere ovunque quelle di favorire l'inserimento degli immigrati regolari, avendo cura di preservare la loro cultura d'origine e le loro tradizioni, compatibilmente con quelle nazionali (Cagiano de Azevedo, 1994). In Italia, ricorda il Coleman, sono presenti il riconoscimento agli immigrati della parità di trattamento e dell'uguaglianza di diritti con i lavoratori autoctoni (diritto all'uso dei servizi sociali e sanitari, alla scuola, alla disponibilità dell'abitazione, al ricongiungimento familiare etc.). certo, più che un'integrazione si tratta di un più o meno adeguato inserimento ma in concreto le situazioni di disagio restano molteplici. Basti pensare al fatto che, in genere, gli immigrati sono prevalentemente occupati in settori svantaggiati e marginali (Entziger, 1990).

Ancora più complesso è il tema del riconoscimento di cittadinanza, perché "rappresenta la conclusione del percorso migratorio e costituisce l'elemento necessario per l'acquisizione dei diritti civili e, quindi per la piena partecipazione dell'immigrato alla vita civile del paese d'arrivo. Le norme sono anche in Italia particolarmente restrittive sia sul piano dei tempi richiesti, sia per la complessità delle previsioni normative e dell'iter amministrativo. Sembra però esserci una puntuale manifestazione di volontà per favorire le politiche d'integrazione. Il testo unico del '98 (D.L. 25luglio 1998, n.286), all'art.46, istituisce presso la Presidenza del Consiglio dei ministri una Commissione permanente per le politiche per l'integrazione che annualmente riferisce al parlamento sullo stato di attuazione delle politiche relative e formula proposte per il loro adeguamento; fornisce inoltre risposta ai quesiti posti dal Governo su dette politiche, su quelle interculturali e sugli interventi contro il razzismo. La conclusione ideale del percorso migratorio, per le ultime generazioni di immigrati è comunque ben lontana dall'essere realizzata (Caselli, 1998).

Rileva ancora Graziella Caselli che anche nei prossimi anni , come si è già detto, "il mondo sviluppato difficilmente potrà contrastare la pressione migratoria dei paesi poveri", e se si cercherà di accentuare le misure restrittive si finirà con l'incrementare l'immigrazione clandestina con l'intervento sovente di mediazioni criminali e mafiose. D'altra parte la geopolitica mediterranea, e più in generale i rapporti Nord Sud, sembrano, nonostante le enunciazioni, essere posposti dalle altre logiche pure incombenti. Così la ineludibilià della pressione migratoria, pur in larga misura necessaria, resterà vieppiù incontrollata.

Un lamento dal Sud

In un accorato articolo del'93 di Tahar Ben Jelloun si legge: "In Francia gli episodi di razzismo sono frequenti e si concludono spesso con la morte di un uomo. A volte si muore nei commissariati di polizia. Queste ondate di rigetto si sollevano in tutta Europa e persino in paesi che furono di emigrazione e sono oggi paesi di immigrazione come la Spagna e l' Italia. Che fare? Il blocco delle frontiere è una pia illusione. Si confondono i clandestini con gli immigrati in regola, si fa di ogni erba un fascio e si estende il sospetto a qualsiasi straniero che richieda asilo. Di fatto se gli immigrati fossero ricchi il problema non si porrebbe. La povertà non piace e oltre un certo limite diventa addirittura intollerabile. L' Europa teme la povertà come se si trattasse di una malattia contagiosa. La soluzione ci sarebbe: fare in modo che tutti gli immigrati abbiano pingui conti in banca. Diventerebbero improvvisamente gradevoli e simpatici e si vedrebbero offrire su un piatto d' argento la nazionalità semplice o doppia, magari la legion d' onore! La fine di questo secolo sarà purtroppo segnata da migrazioni umane impreviste e incontrollabili. Assisteremo all' esodo dall' Africa, demolita dalla siccità, dalla fame, dalle dittature, dall' Aids e dalle guerre tribali. Lo stretto di Gibilterra si trasformerà per molti in un cimitero, mentre per altri sarà l' ultima spiaggia. I paesi dell' Est a loro volta marceranno verso l' Europa sviluppata. Gli italiani non hanno dimenticato l' arrivo spettacolare degli albanesi. La soluzione allora si trova a Sud, nelle nuove relazioni tra Nord e Sud. Soltanto un aiuto massiccio e razionale allo sviluppo dei paesi d' emigrazione potrebbe frenare questo flusso. Ma la Comunità economica europea non prevede questa soluzione. Recentemente è stata messa una tassa sui pomodori marocchini. I pescatori spagnoli, però, fanno tranquillamente razzia lungo le coste del Marocco, particolarmente pescose. A quanto pare, ai giapponesi il nostro pesce piace molto. L' Europa dimentica il passato e preferisce fare degli immigrati i capri espiatori di tutti i mali che la colpiscono o la minacciano. Bisogna avere il coraggio di dire la verità alla gente: esistono soluzioni e c' è posto per tutti, in ogni caso per tutti coloro che hanno partecipato alla costruzione e alla prosperità dell' Europa, i cui figli - che non sono immigrati poiché non si sono mai spostati - vogliono integrarsi e colorare un po' questo continente. L' Europa ha la memoria corta. E' un brutto segno, vuol dire che sta invecchiando. Se i figli degli immigrati le propongono una cura (gratuita) di ringiovanimento, farebbe male a rifiutarla. Eppure, è proprio questo che sta accadendo. E' un peccato, oltre che un' ingiustizia".
 

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