Menú principal

Índice de Scripta Nova

Scripta Nova
REVISTA ELECTRÓNICA DE GEOGRAFÍA Y CIENCIAS SOCIALES
Universidad de Barcelona. ISSN: 1138-9788. Depósito Legal: B. 21.741-98
Vol. XII, núm. 270 (61), 1 de agosto de 2008
[Nueva serie de Geo Crítica. Cuadernos Críticos de Geografía Humana]


La cittÀ - un infinito limitato

Marcella Schmidt di Friedberg
 Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione Riccardo Massa.
Università degli Studi Milano-Bicocca, Milano, Italia
marcella.schmidt@unimib.it

La città – un infinito limitato (Riassunto)

“La città: un infinito limitato. Un  labirinto dove non ci si perde mai” (Kobo Abe, 1967):  all’interno di un più ampio progetto di ricerca dedicato al “perdersi” in diversi contesti, si esamina il disorientamento nella pantopolis del futuro: La città contemporanea diventa il luogo letterario del vagabondaggio senza meta  e il labirinto una metafora dello spaesamento urbano. Nel 2007 la popolazione mondiale urbana ha superato quella rurale. La città dell’urban sprawl e delle baraccopoli sconfinate non corrisponde più a un organismo, a un progetto, ma si presenta  come una rete infinita di relazioni virtuali, senza un centro, senza una mappa e senza coordinate. Come ci si perde nella “città diffusa”? La città globale nasconde   una  realtà complessa e mobile, un mosaico di spazi differenti e frammentati ove è ancor possibile perdersi tra migliaia di sentieri, percorsi da cittadini multiculturali, stranieri ma allo stesso tempo attori e produttori dello spazio che li circonda.

Parole chiave: città, disorientamento, perdersi, aree suburbane, labirinto.

The city – A bounded infinity (Abstract)

“The city – a bounded infinity. A labyrinth where you are never lost.” (Kobo Abe, 1967): in the frame of a broader research project about “getting lost”, we focus on disorientation in the universal pantopolis of the future.  The present metropolis become the literary place of aimless wandering, the labyrinth a metaphor of urban disorientation. In 2007, urban world population surpasses rural world population.  The city of urban sprawl and boundless slums doesn’t coincide anymore with an organism, with a project. It  becomes a boundless net of virtual connections, with no centre, no map, no co-ordinates. How do you get lost in the urban sprawl? The global city hides a complex and mobile reality. A mosaic of different and fragmented  spaces, where is still possible to get lost;  where multicultural citizens, foreigners but at the same time actors and producers of the space around them,  drive though thousands of paths.

Key words: city, disorientation, getting lost, suburban areas, labyrinth.

La città come labirinto

La mappa strappata

“The city – a bounded infinity. A labyrinth where you are never lost. Your private map where every block bears exactly the same number Even if you lose your way, you cannot go wrong.” (Kobo Abe, 1977).  A partire dalla  citazione da Kobo Abe , all’interno di un più ampio progetto di ricerca, dedicato al “perdersi” in diversi contesti (la città, la foresta, la carta, la malattia) si  vuole indagare qui sul disorientamento nella pantopoli del futuro, “la metropoli gigantesca, la città concepita come un mondo vicino al quale  non deve esistere un altro mondo (Oswald Spengler, 1957, p.784).

Il libro di Kobo Abe, The Broken Map (Moyetsukita Chizu) ci conduce nei meandri di una megalopoli sconfinata, attraverso un  dedalo di vie e di  nuovi quartieri: protagonista assoluta del romanzo è una Tokyo iperattiva e violenta,  coinvolta in un processo di  crescita tumultuosa e disordinata.  E’ la città “senza indirizzi” esplorata da Roland Barthes nell’Impero dei Segni, una città dalla mappa indecifrabile: “La più grande città del mondo – dichiara Barthes - è praticamente inclassificata, gli spazi che la compongono nei dettagli sono innominati. […] Tokyo ci ripete […] che il razionale non è che un sistema come altri”  (Barthes, 1984, p.43).

Nel romanzo di Abe, un investigatore privato viene assoldato da una donna misteriosa per ritrovare il marito, un certo Nemuro, scomparso da oltre sei mesi. Aiutato da due soli indizi – una foto e una scatola di fiammiferi – il detective  senza nome inizierà la sua ricerca   nel sottobosco criminale di Tokyo, aggirandosi nei meandri di una metropoli sempre più sconosciuta e irreale, fino a scoprire gradualmente di essersi    immedesimato a tal punto   nella persona scomparsa, da smarrire i confini della  propria identità. Come nella City of Glass di Paul Auster l’identità del detective viene a coincidere con la mappa della città e con il suo sistema organizzato di luoghi noti, una mappa che si fa via via più frammentata, fino a scomparire del tutto. Per Auster: “New York was an inexhaustible space, a labyrinth of endless steps, and no matter how far he walked, no matter how well he came to know its neighbourhoods and streets, it always left him with the feeling of being lost. Lost, not only in the city, but within himself as well. Each time he took a walk, he felt as though he were leaving himself behind  […] .reducing himself to a seeing eye. […]. On his best walks he was able to feel that he was nowhere. And this, finally, was all he ever asked of things, to be nowhere. New York was the nowhere he had built around himself” (Auster, 1985, p.8).  Allo stesso modo del Quinn di Auster, smarrito in un labirinto sia spaziale, sia mentale, il protagonista di Abe  vaga per i bassifondi e per i nuovi quartieri di una città  ormai priva di punti di riferimento,  una collezione di pezzi scompagnati di un puzzle  che non si riesce più a ricomporre: Nemuro non verrà mai trovato e l’investigatore, a sua volta,  smarrirà sé stesso, non riuscendo più a riconoscere neppure i luoghi più familiari e conosciuti. Infine: “I  too left my crevice in the darkness and began walking in the opposite direction. I began walking relying on a map I did not comprehend” (Abe, 1977, p.299).

Il flâneur

La città come  luogo ove “anche se ci si perde, non si può  sbagliare" ci mette a confronto con la metropoli di oggi, una realtà ove ci si può muovere all’infinito e che non si riesce mai a circoscrivere. “Il labirinto è la via giusta per chi arriverà comunque in tempo alla meta. Questa meta per il  flâneur è il mercato” (Benjamin, 2000, p.368), scriveva Walter Benjamin ne I “passages” di Parigi, tra il 1937 e il 1939. Nella fiducia dell’era moderna, le città avevano prodotto, infatti,  la figura del flâneur che vagabonda  per la città e ne rifiuta la rigida griglia  pianificata. La città contemporanea risponde così al luogo letterario del vagabondaggio  per le strade “dimora della collettività“(Benjamin, 2000, p. 474) e il labirinto diventa una rappresentazione dello spaesamento urbano.  Nell’esplorazione artistica e letteraria della città  ci scontriamo sempre con la potente metafora del labirinto:   “On notera que le labyrinthe constitue une métaphore particulièrement riche pour rendre compte des problèmes posés par l’observation et l’explication du monde” (Raffestin, 1996, p.120-21), dichiara Claude Raffestin. Sia la città del flâneur di fine secolo, sia la città globale di oggi  coincidono  in modo sempre  più netto con tale metafora:  “Infatti, ci troviamo nel hyper-labirinto della città moderna nel quale la tecnica è sempre chiamata per ristabilire un equilibrio minacciato nelle crisi di tutti i tipi” (Raffestin,  s.d., p.10).

La città di   Benjamin “intorno al millenovecento”:  “E’ la realizzazione dell’antico sogno  umano del labirinto: a questa realtà, senza saperlo, è dedito il flâneur” (Benjamin, 2000, p.481). Il flâneur bighellona a caso tra la folla: « La foule est son domaine, comme l’air est celui de l’oiseau, comme l’eau celui du poisson. Sa passion et sa profession, c’est d’épouser la foule. Pour le parfait flâneur, pour l’observateur passionné, c’est une immense jouissance que d’élire domicile dans le nombre, dans l’ondoyant dans le mouvement, dans le fugitif et l’infini» (Baudelaire, 1868, p.9), scrive Baudelaire nel  1868.  La “massa in Baudelaire”, aggiunge Benjamin: “Si distende come un velo dinanzi al flâneur : è l’ultima droga di chi è solo. – Cancella, poi, ogni traccia del singolo: è il rifugio più recente del proscritto. Nel labirinto della città è, infine, l’ultimo, più impenetrabile labirinto. Attraverso essa  si imprimono nell’immagine della città tratti ctoni finora sconosciuti” (Benjamin, 2000, p.498). Il flâneur legge lo spazio urbano come un testo e si  smarrisce in esso: “Non sapersi orientare in una città non significa molto. – scrive ancora Benjamin nel 1932 - Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta. […] Quest’arte l’ho appresa tardi; essa ha esaudito il sogno, le cui prime tracce furono i labirinti sulle carte assorbenti dei miei quaderni” (Benjamin, 2003, p.360).

Nell’aggirarsi senza meta del flâneur - una figura oggi tornata alla ribalta in quella che Nuvolati definisce  la “società tardomoderna”  (Nuvolati, 2006, p.7)  - troviamo il rifiuto del modello di  una città  divenuta indifferente “per il cittadino medio, quello che non ha il potere di mettere le mani sulla città e di mutare  il volto dell’ambiente in cui vive” (La Cecla, 2000, p 38). Una realtà comune alla città mondiale di oggi, la città delle telecamere e degli shopping center, degli spazi pubblici da difendere contro gli “usi impropri” di barboni, immigrati, bambini e  animali. Continua La Cecla: “E’ contro  questo terribile  dominio della località che agiscono i primi regolamenti di polizia urbana e i primi piani urbanistici. Si tratta di sgomberare  la città dei suoi locali abitanti e di renderla permeabile e controllabile dall’esterno, in ogni suo punto. Si tratta di fare “piazza pulita”,  demolendo, sfrattando, penetrando corte e cortili, mettendo a nudo ciò che in questi dominii esclusivi della località poteva  celarsi di pericoloso per l’igiene, il decoro e la morale pubblica. […] La città deve smettere di essere un insieme di foreste dove gli estranei si perdono” (La Cecla, 2000, p.33).  Alla fine del secolo scorso,  il  vagabondare il flâneur esprimeva una  critica alla società del II impero e all’idea di modernità: egli condanna la  trasformazione urbana che stava avvenendo in senso razionale e funzionalista e si muove alla ricerca di “sacche di resistenza” nei mercati  e nei quartieri tradizionali. La strada diventa un “interno”: “Poiché come la flânerie può mutare l’intera Parigi in un intérieur, in un’abitazione le cui stanze non divise da soglie come le camere vere e proprie, sono i quartieri, così, d’altro canto, la città può schiudersi al passante da ogni parte come un paese senza soglie” (Benjamin, 2000, p.472).

L’erranza, dai dadaisti ai  situazionisti

Negli anni Venti, l’arte del vagabondaggio del flâneur si trasforma nelle  “visite-escursioni” del dadaismo che propongono la visita a: “Des endroits choisi, en particulier à ceux qui n’ont vraiment pas  de raison d’exister”, come si legge nel volantino distribuito dai dadaisti per le strade di Parigi nel 1921 (Dada a Saint –Jullien–le–Pauvre, 14 aprile 1921). Si tratta di vagare nella città ed esplorarne i  “luoghi banali”, in cerca di associazioni mentali. Secondo Careri: “Dada eleva la tradizione  della flânerie a operazione estetica” (Careri, 2006, p.47).  Seguiranno  le “deambulazioni” del surrealismo “un’esplorazione ai confini tra la vita cosciente e la vita da sogno” (Breton, 1973, pp.53-54).  Louis Aragon, a sua volta,  nel Paysan de Paris descrive l’esperienza del vagare per le strade: « La lumière moderne de l'insolite […] règne bizarrement dans ces sortes de galeries couvertes qui sont nombreuses à Paris aux alentours des grands boulevards et que l'on nomme d'une façon troublante des passages, comme si dans ces couloirs dérobés au jour, il n'était permis à personne de s'arrêter plus d'un instant» (Aragon, 1966, p. 75).

Al Surrealismo fa eco negli anni Cinquanta del Novecento il Situazionismo:  Guy Debord riprende la pratica del vagabondaggio urbano chiamandolo deriva Psicogeografica, un’esplorazione della città nettamente distinta dall’esperienza del viaggio o della passeggiata.  ”La deriva urbana consisteva nello smarrirsi consapevolmente fra le pieghe di una città” (Careri, 2001, p.32), spiega Careri. Tale pratica si propone come un metodo di lettura della città in base ai principi della psico-geografia, per il “riconoscimento degli effetti psichici del contesto urbano sull’individuo e sui suoi comportamenti” (Constant in Careri, 2001, p. 27). La  dérive produce, inoltre, un apparato cartografico che sarà presentato nella "Première exposition de psychogéographie" del  1957, nell’intento di decostruire la cartografia tradizionale: le “carte psicogeografiche” (La Guide psychgéographique de Paris, The Naked City: Illustration de l’hipothése des pasque tournantes en psychgéographique) sono mappe che invitano a perdersi,  mostrando frammenti della carta di Parigi, in quanto spazio spezzato e discontinuo. Un sistema di frecce collega  e separa tali unità di ambiente, aree omogenee determinate in base ai rilievi psicogeografici: si svela così la “città nuda”, meta delle derive di Debord e Asger Jorn, intrisa di relazioni di attrazione e di repulsione o di esclusione tra  le varie aree e le loro memorie, con riferimenti alla guerra, al colonialismo, attraverso  testi e francobolli. I situazionisti osservano la città dall’esterno, ne sperimentano le esperienze sensoriali, ludiche  e affettive e apportano una critica radicale alla società contemporanea: “ Cette société qui supprime la distance géographique recueille intérieurement la distance, en tant que séparation spectaculaire » (Debord, 167, 1967).

La città di riferimento è sempre  Parigi, la ville qui remue  la città per eccellenza dal punto di vista dell’edilizia e della cultura. Una città messa a rischio dai progetti di rinnovamento urbano che cancellano i vicoli, le Halles e i suoi Passages.  Dichiara Debord: « Le souci de disposer d'espaces libres permettant la circulation rapide de troupes et l'emploi de l'artillerie contre les insurrections était à l'origine du plan d'embellissement urbain adopté par le Second Empire. Mais de tout point de vue autre que policier, le Paris d'Haussmann est une ville bâtie par un idiot, pleine de bruit et de fureur, qui ne signifie rien” (Debord, 1955, p.13).  La derive, quindi, si deve muovere  in una strategia di resistenza tra quello che resta dei vecchi quartieri e dei loro abitanti “dove perdersi era una pratica per ridare valore all’aspetto indecidibile e radicalmente anarchico dell’esperienza spaziale” (Della Cecla, 2000, p. 132). Debord ci da indicazioni precise sui luoghi da visitare e da evitare assolutamente: « Urbanisme. À Paris, il est actuellement recommandé de fréquenter : la Contrescarpe (le Continent) ; le quartier chinois ; le quartier juif ; la Butte-aux-Cailles (le labyrinthe) ; Aubervilliers (la nuit) ; les squares du 7e arrondissement ; l'Institut médico-légal ; la rue Dauphine (Nesles) ; les Buttes-Chaumont (le jeu) ; le quartier Merri ; le parc Monceau ; l'île louis (l'île) ; Pigalle ; les Halles (rue Denis, rue du Jour) ; le quartier de l'Europe (la mémoire) ; la rue Sauvage. Il est recommandé de ne fréquenter en aucun cas : les 6e et 15e arrondissements ; les grands boulevards ; le Luxembourg ; les Champs-Élysées ; la place Blanche ; Montmartre ; l'École Militaire ; la place de la République, l'Étoile et l'Opéra ; tout le 16e arrondissement » (Debord, 1955b, p.1).

La critica di Debord alla « società dello spettacolo » anticipa la riflessione contemporanea sullo spaesamento urbano in una città sempre più grande e frenetica: « Le moment présent est déjà celui de l'autodestruction du milieu urbain. L'éclatement des villes sur les campagnes recouvertes de «masses informes de résidus urbains» (Lewis Mumford) est, d'une façon immédiate, présidé par les impératifs de la consommation » (Debord, 1967, 174 ). Debord denuncia poi la dittatura dell’automobile,  primo prodotto del consumo, e dell’autostrada per la sua funzione destabilizzante per il territorio e, infine, i supermercati, veri e propri “templi del consumismo”. La città, per Debord, è vittima della “società dello spettacolo”  che la rende  invivibile: « Mais l'organisation technique de la consommation n'est qu'au premier plan de la dissolution générale qui a conduit ainsi la ville à se consommer elle-même » (Debord, 1967, 174).

I situazionisti, tuttavia, non si limitano alla critica, ma esplorano e ideano nuovi spazi alternativi. Nella “deriva“ del dopoguerra, la città viene immaginata come uno spazio nomade, mobile, autorganizzante, la “Nuova Babilonia” anticipa la rete dell’era globale: una pratica contemporanea della deriva, o forse della cyber-deriva è, infatti,  il vagare nella rete satellitare, perdendosi tra le strade di Google Map. Nel 1956, Constant Nieuwenhuys, dopo aver visitato un accampamento di gitani ad Alba, sulla riva del Tanaro, entrerà in contatto con la cultura nomade e con nuove forme dell’abitare. Da qui concepisce l’idea di New Babylon « un accampamento permanente. […]  una New Babylon dove si costruisce sotto una tettoia con l’aiuto di  elementi mobili, una dimora comune ; un’abitazione temporanea, rimodellata costantemente; un campo nomade alla scala planetaria” (Constant in Careri, 2001, p.26).

New Babylon è, per Constant, un’utopia concreta, un progetto rivoluzionario di critica  radicale della società borghese-utilitarista, alla quale contrappone la società ludica, ove l’aggressività lascerà lo spazio alla  creatività: “New Babylon è una città ludica, un’opera collettiva edificata dalla creatività architettonica di una nuova società errante, di una popolazione che costruisce e ricostruisce all’infinito il proprio labirinto in un nuovo paesaggio artificiale” (Careri, 2006, p. 78). New Babylon sarà una città fluttuante che favorisce i contatti e gli incontri fortuiti. Scrive Constant:  “New Babylon non finisce in nessun luogo (essendo la terra rotonda); e non conosce frontiere (non essendoci economie nazionali) o collettività (essendo l’umanità fluttuante). Ogni luogo è accessibile da uno e da tutti. L’intera terra diventa una casa per i suoi abitanti. La vita è un viaggio infinito attraverso un mondo che sta cambiando così rapidamente che sembra un altro” (Constant, in Careri, 2006, p.84).  Il perdersi nella città-labirinto acquista, così, una valenza positiva: possiamo conludere con Careri che  “L’errare potrebbe essere considerato come un  valore piuttosto che  un errore” (Careri, 2006, p.9)

Verso la pantopoli?  

Un mondo di cittadini

Pantopoli, città mondiale, ecumenopoli, cosmopoli, città globale: tale   ricchezza di termini mostra l’interesse verso il tema della trasformazione urbana nell’era della globalizzazione e gli interrogativi e le preoccupazioni che la crescita  del fenomeno urbano, nei suoi aspetti quantitativi e qualitativi, suscita oggi. Cos’ è, tuttavia,  pantopoli? Per Oswald Spengler: “La “cosmopoli”, questo colosso di pietra, la si incontra alla fine del  ciclo di ogni grande civiltà. […] Questa massa di pietra è la città assoluta. [] Finché il focolare in senso religioso costituisce il centro reale significativo della famiglia, sussiste un’ultima connessione con la terra. Solo quando anche questo scompare e una massa di locatari e di ospiti per la notte  conduce una esistenza errante da un tetto a  un altro in questo mare di case  come i cacciatori e i pastori delle origini, solo allora prende forma compiuta il nomade intellettuale. Questa città è un mondo, è il mondo” (Oswald Spengler, 1957, p.793).

Nel 2008, per la prima volta nella storia,  la popolazione urbana del mondo ha superato quella rurale raggiungendo, come, riporta lo State of World Population 2007: Unleashing the Potential of Urban Growth : “An invisible but momentous milestone” per l’umanità all’alba del terzo millennio. Tale popolazione ammonta oggi a 3.3 miliardi di persone, con una crescita prevista intorno a 5 miliardi di cittadini per il 2030 (UNFPA, 2007, p.1) La città si espande, le  megalopoli dominano la scena mondiale. La crescita urbana, tuttavia, sia dal punto di vista spaziale, sia temporale, non è stata all’altezza delle aspettative millenaristiche del secolo scorso: le mega-città  oggi accolgono il 4  per cento degli abitanti  della Terra e il  9 per cento della  popolazione urbana totale e non è prevista un’inversione di tendenza nei prossimi anni. Relativamente contenuta è pure la crescita del territorio occupato dalle città. Leggiamo ancora nel  rapporto  UNFPA: “The space taken up by urban localities is increasing faster than the urban population itself. Between 2000 and 2030, the world’s urban population is expected to increase by 72 per cent, while the built-up areas of cities of 100,000 people or more could increase by 175 per cent” (UNFPA, 2007, p.45).L’area occupata dalle città, tuttavia, non è di  per sé così ampia come si potrebbe supporre, tenendo conto che ospita più della metà della popolazione mondiale. Sempre secondo i dati UNFPA, basati su rilievi satellitari, si evince che la superficie totale della Terra, occupata dall’insieme di tutti gli insediamenti urbani  nel loro complesso, comprendendo sia le aree edificate, sia le aree verdi, non supera il 2.8 per cento delle terre emerse: ciò significa che 3.3 miliardi di persone occupano un’area inferiore alla metà dell’Australia (UNFPA, 2007).

Le città aumentano di numero e di dimensioni, ma il fenomeno urbano continua a proporsi piuttosto come una rete di relazioni economiche, politiche e umane, con maglie più dense e spazi più radi. Scrive Bauman: “Le città contemporanee sono il palcoscenico o il campo di battaglia su cui poteri globali e significati e identità ostinatamente locali si incontrano, si scontrano, lottano e cercano un accordo soddisfacente, o appena sopportabile, una modalità di coabitazione che si spera sia una pace duratura ma che di norma si rivela  soltanto un armistizio; brevi pause per riparare le difese danneggiate e  dispiegare nuovamente le unità di combattimento. E’ questo confronto, e non un qualsiasi altro fattore, che mette in moto e guida  la dinamica della città  della modernità liquida” (Bauman, 2007, pp.92-93).  Pantopoli non è quindi un oggetto fisico, ma piuttosto una concezione del mondo, comune ormai alla maggioranza degli abitanti del pianeta. Pantopoli è un prodotto culturale che espande ovunque  il  proprio stile di vita, il proprio rapporto con l’esterno e con l’interno. Spiega Capel: “Ciudad mundial significa, de alguna manera, sistema mundial de ciudades, un camino que desde luego se ha recorrido, especialmente a partir del momento en que historiadores y economistas han hablado claramente de un sistema mundial socioeconómico, desde perspectivas marxistas que parten de una teoría sobre el cambio social o desde otras que ponen énfasis en la "globalización" de la economía” (Capel, 2003, p.46).

Pantopoli è il luogo centrale della politica, del mercato,  dei flussi di informazione, delle mode e delle tendenze culturali, ma anche il luogo dell’affollamento, del distacco dalla natura, del traffico e dell’inquinamento.   Soprattutto è il luogo della folla; è la crescita quantitativa di persone  coinvolte da uno stile di vita urbano.  I poveri rappresenteranno la maggior parte dei nuovi cittadini, ci informa ancora  il Rapporto UNFPA 2007: “One of the Report’s key observations is that poor people will make up a large part of future urban growth. This simple fact has generally been overlooked, at great cost. Most urban growth now stems from natural increase (more births than deaths) rather than migration. But wherever it comes from, the growth of urban areas includes huge numbers of poor people (UNFPA, 2007, p.1).  Nella rapida crescita  della popolazione urbana mondiale la maggior parte dei cittadini apparterranno ai paesi cosiddetti “in via di sviluppo”: in Africa e in Asia  è previsto il raddoppio della popolazione urbana tra il  2000 e il 2030.  Sempre secondo l’UNFPA, nel 2030  le città dei  paesi “in via di sviluppo” accoglieranno l’80 per cento della popolazione urbana mondiale (UNFPA 2007) .

La città cresce, si espande tra aree suburbane, sconfinati quartieri di baracche, aree megalopolitane, reti di centri, in un tessuto ora più fitto, ora più frammentato. Scrive Capel:“Al mismo tiempo la ciudad construida (la urbs) se difunde y la ciudad difusa o dispersa muestra esta realidad. Junto a la ciudad compacta, hoy crecientemente valorada, la ciudad dispersa y difusa, con conexiones instantáneas a través de redes telefónicas y acceso a la telefonía móvil (Capel, 2003, p.48). Come ci si perde nella “città diffusa”? Come si riconoscono e si vivono i suoi pieni e i suoi vuoti? Nell’immaginazione letteraria, così come ci si smarrisce nella Tokyo di Kobo Abe e nella New York  di Paul Auster ci si smarrisce  nelle Città invisibili di Italo Calvino. Ci troviamo nella città di Trude: “Se toccando  terra a Trude non avessi letto il nome  della città scritto a grandi lettere, avrei creduto d’essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito.  I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da quegli altri. […] Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l’albergo in cui mi capitò di scendere. […] Perché venivo a Trude?  Mi chiedevo. E già volevo ripartire. Puoi riprendere il volo quando vuoi,  - mi dissero, ma arriverai a un’altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è tutto una Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome dell’aeroporto”  (Calvino, 2004, p.467). La città dell’urban sprawl e dei “quartieri informali” senza limiti non corrisponde più a un organismo, a un progetto, ma si presenta  come una rete infinita di relazioni virtuali, una realtà fluida, mutevole, senza un centro, senza una mappa e senza coordinate. Secondo Rogel Salazar: “These cities are configured in a topology where all place are equivalent to each other, where every citizen lives their own city, which  might have nothing to  do with their fellow citizen experience. The new centrality, if there is such a thing, is given by the shopping malls, the multi-purpose spaces where businesses have brought back together what the city broke up” (Rogel Salazar, 2003, p.13). 

Il labirinto come rizoma

La metafora dominante della città oggi è, quindi,  ancora il labirinto, un labirinto che prende, tuttavia nuove forme spaziali: « Dans l'architecture même, le goût de la dérive porte à préconiser toutes sortes de nouvelles formes du labyrinthe, que les possibilités modernes de construction favorisent »  (Debord,1956, p. 23), aveva anticipato Debord. La nuova forma del labirinto urbano è il rizoma,  un modello semantico complesso che sostituisce la concezione del labirinto ad albero, basato, cioè, su un’organizzazione gerarchica  e lineare dei flussi e delle informazioni: nel rizoma non c’è un centro, né un ordine. Invece: “A differenza degli alberi o delle loro radici, il rizoma collega un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rimanda necessariamente a tratti dello stesso genere, mettendo in gioco regimi di segni molto differenti ed anche stati di non-segni. […]. Rispetto ai sistemi centrici (anche policentrici), a comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti, il rizoma è un sistema acentrico, non gerarchico e non significante " (Deleuze, Guattari,  2003, p 33 ).

E’ il labirinto di “terzo tipo”, dopo il labirinto classico unicursale  che si srotola dall’ingresso al centro, e il labirinto manieristico o Irrweg, ricco di scelte alternative e vicoli ciechi. Spiega Umberto Eco: “Il labirinto di terzo tipo  è una rete, in cui ogni punto può essere connesso con qualsiasi altro punto. Una rete non può essere srotolata. […] estensibile all’infinito non ha né esterno, né interno. Poiché ogni suo punto può essere connesso con qualsiasi altro punto, e il processo di connessione è anche un processo continuo di correzione delle connessioni, la sua struttura sarebbe sempre diversa da quella che era un istante prima,  e ogni volta si potrebbe percorrerla secondo linee diverse. […] Il rizoma è smontabile  e reversibile, suscettibile di modificazioni. […] Non si da descrizione globale del rizoma, né nel tempo, né nello spazio; il rizoma incoraggia e giustifica la contraddizione: se ogni suo nodo può essere connesso con ogni altro suo nodo, da ogni nodo si può pervenire a ogni altro nodo, ma si possono anche verificare processi a loop; del rizoma si danno sempre e solo descrizioni locali” (Eco, 2007,  pp. 59-60).

Il rizoma si presenta quindi come un sistema aperto, sempre percorribile dove il perdersi acquista il significato di una nuova  scoperta, di un incontro imprevedibile. Spiega Rogel Salazar:  “The rhizomatic approach allows us to understand the logics of different contemporary cities, the one with dimensions never thought of, that are now broken in several ‘senses’. They are cities without unity, since they do contain all sort of spaces from different times and models” (Rogel Salazar, 2003, p.13). Il labirinto rizomatico aiuta  a entrare nella complessità dello spazio urbano contemporaneo, a confrontarsi con le nuove logiche, dimensioni e problematiche della città oggi: una città di dimensioni mai prima immaginate, con più centri, ove ogni cittadino può vivere nella totale estraneità degli altri cittadini.  Continua Rogel Salazar: “The labyrinth is an icon of perplexity, where it is possible to feel the anguish and vertigo symbolised by the transgression of the space-time. And even if  the labyrinth creates disorientation and makes references to infinity, its design allows us to see certain partial and occasional order immersed in an apparent nonsense” (Rogel Salazar, 2003, p.16).

 La metafora del labirinto prende l’aspetto di una strategia cartografica per condurci attraverso la complessità della città di oggi, muoverci all’interno di essa,  riconoscerne gli spazi, vincerne le paure e   individuare modalità di resistenza al senso di disorientamento spaziale. Scrive Castells: “The new spatial logic, characteristic of the Informational City, is determined by the pre-eminence of the space of flows over the space of places. […] Urban life muddles through the pace of history. When this pace accelerates, cities – and their people – become confused, spaces turn threatening, and meaning escapes from experience. In such disconcerting  yet magnificent times, knowledge becomes the only source to restore meaning, and thus meaningful action” (Castells, 2006, p.136).

Nel labirino rizomatico la città non è solo il centro dell’economia, della politica della cultura che aveva guidato l’idea di modernità: ci troviamo di fronte alla città prodotta dalla rivoluzione informatica, la città dei network, della autostrade informatiche, degli shopping mall, divenuti – come i Passages di Parigi per il flâneur - il rifugio dei cyberflâneur. Scrive  ancora Castells: “The information age is ushering  a new urban form, the informational city […] because of the nature of the new society, organized around networks, and partly made up of flows, the informational city is  not a form but a process, a process characterized by the structural domination of the space of flows” (Castelles, 1996, p.398).

Il cyberflâneur non si aggira solo per gli shopping center e i grandi mall: gode di una mobilità virtuale illimitata che cancella lo spazio fisico e  permette di muoversi anche nella  rete della cosmopoli virtuale, con le sue possibilità interattive e la sua capacità di ridefinire i sistemi con i quali entra in relazione. La città ipertecnologica   dell’era informatica, tuttavia, non cancella o esclude il senso geografico del luogo. Nel labirinto del World Wide Web, non si incontrano solo immagini passive, come al cinema o alla televisione, ma vi è la possibilità di interagire con esse e con i loro produttori;  nel computer, nel telefono cellulare, nella macchina digitale il mondo virtuale e reale convivono, influenzandosi a vicenda: un esempio è il navigatore satellitare delle automobili con le sue straordinarie capacità di orientamento o disorientamento (se non puntualmente aggiornato) nel labirinto urbano. Nello cyberspazio, secondo Featherstone ‘instantaneous connections are possible which render physical spatial differences irrelevant’ (Featherstone 1998, p. 921).

La “città bastarda”

Il labirinto rappresenta  anche la diversità, lo spaesamento culturale dei nuovi arrivati,  il doversi adeguare a nuove forme di vita e di comunicazione,  a nuove strategie di sopravvivenza. Scrive Saskia Sassen: “The large Western city of today concentrates diversity. Its spaces are inscribed with the dominant corporate culture but also with a multiplicity of other cultures and identities. The slippage is evident: the dominant culture can encompass only part of the city. And while corporate  power inscribes these cultures and identifies them with “otherness” thereby devaluing them, they are present everywhere” (Sassen, 1998, p. xxxi). Lo spazio urbano si impregna di tale diversità, espressa nelle forme dell’edilizia formale e informale. Stili di vita globali si fondono con  retaggi di conoscenze locali, producendo nuovi modi di essere,  di attribuire un significato alla realtà circostante,  ma anche nuove fonti di ansia e di aggressività. Ci troviamo dianzi al paradosso della politica, evidenziato da  Bauman: “Le città sono diventate le discariche di problemi concepiti  e partoriti a livello globale, Gli abitanti delle città e i loro rappresentanti eletti tendono ad affrontare  un compito che neanche  l’immaginazione più sfrenata potrebbe concepire alla loro portata: il compito di trovare soluzioni locali a difficoltà e problemi concepiti a livello globale “ (Bauman, 2007, p. 95).

Pantopoli  non è solo una macchina funzionale che genera e gestisce capitali, informazioni, politica e persone in un mercato globalmente connesso  ma anche uno spazio dove si incontrano, scontrano e incrociano saperi e culture. E’, per  Leonie Sandercock: “The city of memory, of desire, of spirit: the unruly city as opposed to the planners’ dream of the rational city – a dream that come out of the social sciences with its social and technologies of control” (Sandercock, 1998, p.207). Nella loro crescita vertiginosa, le città, soprattutto quelle di maggiori dimensioni, accolgono più  generazioni di migranti, diversi per stato sociale e culturale: la cosmopoli si presenta come un universo multiforme che include ogni forma di diversità culturale ed etnica.  La nuova popolazione urbana, secondo lo State of the World Population, si trova bombardata da nuovi stimoli, nuove opportunità e nuove difficoltà nel campo professionale, familiare e del tempo libero. Le città  è il luogo dell’arricchimento culturale, dello scambio e dell’incontro, ma anche della perdita dei propri legami comunitari e valori tradizionali, del senso di appartenenza al territorio e alla natura: il nuovo cittadino si trova in molti casi a vivere in condizioni disagiate e  soffre per l’emarginazione, l’esclusione  e lo sradicamento che si traducono, talvolta, in comportamenti violenti e aggressivi. Il modello di vita della città globale, inoltre, è spesso associato all’imposizione di valori e stili di vita occidentali, non sempre condivisi  (UNFPA, 2007).

La città è il luogo d’incontro della diversità, una diversità che si somma e produce nuove identità meticce, nuove forme d’espressione. E  la “città bastarda”, “the mongrel cities of the twenty-first century” descritta da  Sandercock: “I have appropriated ‘mongrel’ from Salman Rushdie (1991) and use it in the same spirit as he does: as both provocation and term of approbation for the kinds of changes that are happening in cities the world over, as they become  more multi-ethnic and multi-cultural. This book is a manifesto of sorts: a radical manifesto for twenty-first century cities” (Sandercock, 2003, p. XIII). Nel panorama “bastardo” descritto da Sandercock, il cittadino planetario si trova  ad affrontare nuove forme di disorientamento che riguardano l’intera sfera della sua vita, in un crogiuolo di stimoli e di esperienze differenti. Nella lettura della città attraverso gli occhi dei suoi nuovi cittadini la Sandercock esamina le storie raccontate da esponenti culturali di diversa provenienza come, ad esempio Gloria Anzaldùa, scrittrice  messicano-statunitense di origini indie che esplora una nuova coscienza mestiza:  “Shaped by cultural collision, forged out by mental and emotional states of perplexity and confusion” (Sandercock, 1998, p.113). Una confusione che nasce dal suo continuo attraversare   la frontiera, una frontiera non solo geografica  più volte attraversata per visitare i parenti messicani, ma anche una frontiera che riguarda il senso di appartenenza, di classe, cultura, etnia e sessualità, in quanto donna lesbica, di colore. La città mondiale ci mette di fronte a nuove identità e a nuove forme  di cittadinanza  che richiedono: “l’immaginazione  e il sapere utili per uscire dalle acque  stagnanti della monocultura  e apprezzare fino in fondo i vantaggi delle mescolanze, degli incroci e delle fusioni tra diversità” (Agostinis, 1996, p.202). Gli abitanti di pantopoli possono non condividere le origini, le tradizioni culturali e politiche, le esperienze di provenienza. ‘Yet - osserva Featherstone - ‘in contrast to the polis, this cosmopolis possesses a tolerance of diversity’ (Featherstone, 1998, p. 911): essa consente  nuove  “identificazioni cosmopolitane”.

Suburbia

(la città sotto)

La “città bastarda”  del caos e della diversità non è,  tuttavia, solo un’eredità del “sottosviluppo”, da ordinare e riorganizzare secondo quell’ordine razionale che sfuggiva alla Tokyo di Barthes. I poli centrali della finanza, della politica, dell’economia, del patrimonio turistico si adoperano oggi per imporre a pantopoli un modello unico, organizzato e pianificato. Secondo Caterina Resta:  “La cosmopoli diviene allora quello Stato Mondiale)nel quale tutti sono cittadini solo al prezzo di un’assoluta cancellazione di ogni idioma, lingua, comunità, memorie singolari. Il nomade moderno, non a caso, “comunica” attraverso l’unica lingua universale, quella della tecnica, che a sua volta spezza le antiche pietre nell’incessante travaglio cui sottopone la terra e gli umani.” (Resta, 1999, p.82).  La città di oggi, tuttavia, nonostante i progressi della tecnologia non può comunicare in una lingua unica e rinunciare alla propria diversità. Secondo Eichberg: “The movement  culture of the city appears as a multiplicity of highly different  movement cultural “scenes” […]. Indeed, the metropolis reveals itself as an archipelago of networks, places and milieus, some interacting  with each other, other non-connected – a world of islands and channels” (Eichberg, 2005, p.4). La città contemporanea è vissuta, percorsa,  amata, odiata, costruita dalle mani, dagli sguardi, dai corpi e dalle idee di 3.3 miliardi di persone: cosmopoli non può  essere che  il luogo dell’eterogeneità.

Entriamo così nei “suburbia” nella città sotterranea, dove i cittadini vivono e agiscono. Scriveva l‘artista, esponente della Land Art, Robert Smithson, nel 1968: “Suburbia encompasses the large cities and dislocates the Versione non disponibile per gli utenti Screenreader’country’. Suburbia literally means a ‘city below’; it is  a circular gulf between city and country – a place  where buildings seem to sink away from one’s vision – buildings fall back into sprawling babels or limbos. Every site glides away toward absence. An immense negative entity of formlessness displaces the center which is the city and swamps the country” (Smithson, 1979, p.74).

“Vedere” e “fare” la città

Vagando per il labirinto rizomatico della città, ci scontriamo con il doppio livello di significato di città, messo in evidenza da Michel De Certeau, nell’Invenzione del quotidiano, la città del “vedere” e  la città del “fare”. Nella “città panorama”  la realtà urbana può essere vista dall’alto, trasposta su una carta, pianificata e organizzata: “Vi è un’estraneità del quotidiano, sfuggente alle totalizzazioni immaginarie dell’occhio, che è priva di superficie o è soltanto un limite avanzato, un bordo che si staglia sul visibile” (De Certeau, 2001, p.146), spiega De Certeau.  Se si scende, invece, a livello della strada, si diventa  walker,   pedoni: “Una città transumante, o metaforica, s’insinua così nel testo chiaro di quella pianificata e leggibile” (De Certeau, 2001 p.145).  Il walker è cieco, non  riesce più a vedere la città nel suo insieme, ma  ne vive la realtà quotidiana nelle sue relazioni spaziali e sociali. Scrive ancora De Certeau: “Ma coloro che vivono quotidianamente la città, a partire da soglie in cui cessa la visibilità, stanno “in basso”. Forma elementare di questa esperienza sono i passanti (Wandersmänner), il corpo dei quali obbedisce ai pieni e ai vuoti di un “testo” urbano che essi scrivono senza poterlo leggere. Si aggirano in spazi che non si vedono, ma di cui hanno una conoscenza altrettanto cieca  dei contatti fisici amorosi. [...] E’come se un accecamento caratterizzasse le pratiche abitative della città abitata” (De Certeau, 2001, p.145).

La città del walker è anche la parte più viva e creativa dello spazio urbano: essa racconta le storie dei   milioni di individui che la abitano, del loro muoversi secondo itinerari differenti; è ricca  di spazi aperti, di angoli bui, di nuovi modi di essere, di rapportarsi con l’esterno e con l’interno, di perdersi e di trovarsi. Secondo La Cecla: “Una mutilazione ampiamente praticata in una capacità ancor viva, possibile,  la cui evidenza tutt’ora ci circonda. […]  la capacità di abitare è tanto strettamente connessa ad una cultura che la “mente locale” si può organizzare ed esprimere perfino nella griglia urbana più meschina e nel più squallido  slum. E infatti spesso le barriadas, le favelas, le bidonvilles gli stessi ghetti urbani degli emarginati sono più vivi della parte “elegante” delle città” (La Cecla, 2000, p.5). La città sotterranea, vista da sopra, può sembrare caotica ed aggressiva, ma per chi la vive dall’interno  è la casa, il luogo familiare, raggiungibile e riconoscibile. Scrive Eichenberg: “The urban maze is a picture of the stranger’s movement in an astranged world. It is a picture of alienation in the urban labyrinth as seen from outside. For the inhabitants of the city, the urban space offers a labyrinthine pattern of feeling at home. […]. Seen from inside, the urban labyrinth is  a picture of identity” (Eichberg, 2005, p.12).

Nelle “città ombra”, nelle “periferie dell’anima”  un miliardo di squatter si dedica a produrre la città: si tratta di cittadini multiculturali, stranieri ma allo stesso tempo attori e produttori dello spazio che li circonda. Per Appadurai: ”Le popolazioni spaesate, deterritorializzate e in movimento che costituiscono gli etnorami odierni sono impegnate nella costruzione delle località, in quanto struttura di sentimento, dovendo spesso far fronte all’erosione, alla dispersione e all’implosione dei vicinati come formazioni sociali coerenti” (Appadurai, 2001, p. 257). L’appropriazione dello spazio dei terrain vagues, dei terreni di nessuno,  delle periferie abbandonate produce nuove forme abitative e anche un nuovo senso del luogo. Per la Cecla: “E’ proprio il carattere da luoghi perduti e del perdersi che fa delle aree marginali e “di risulta” gli spazi per eccellenza dove i soggetti della mente locale possono esercitare a pieno la propria attività. E’ qui che cova il futuro delle città, che si plasma ciò  che darà significato in seguito al resto pianificato o spento” (La Cecla, 2000, p. 138). Sono spesso gli abitanti degli slums a costruire la nuova città, una città che ha  le sue regole, i suoi rapporti di potere, il suo mercato.  Aggiunge Neuwith:  “The miracle is that the world’s squatters value civil society and want to find a way of working within the system. They are law-abiding outlaws, patriotic crimanals” (Neuwirth, 2005, p.310).

Il cyberflâneur

Il flâneur, divenuto  cyberflâneur, si aggira anche per pantopoli. Egli non si adatta al ritmo frenetico della nuova metropoli globale, soffre  spesso, di un senso di spaesamento e di solitudine: “Di qui le diffuse similitudini, nella letteratura sociologica e non sociologica, tra il flâneur e le figure marginali della società: il senzatetto che vaga nelle stazioni ferroviarie, il pensionato che rincorre i suoi ricordi o si ostina a controllare lo stato di avanzamento dei lavori nei cantieri del suo quartiere, l'immigrato che si muove in una città sconosciuta alla ricerca di una nuova identità, il baraccato che trascorre le sue giornate gironzolando in centro, lo studente squattrinato che inganna il tempo nei luoghi di leisure»  (Nuvolati, 2006, pp. 33). La costruzione  dello spazio urbano da parte delle culture popolari è in conflitto con l’ideologia dominante de: “I nuovi barbari che avevano invaso la città volevano trasformarla in quella Paperopoli Globale che vive nelle casette unifamiliari e che prolunga il proprio habitat  lungo le autostrade  reali e le  reti virtuali di Internet” (Careri, 2006, p.130). I nuovi significati e valori  attribuiti ai luoghi sono, spesso, in opposizione con quelli ufficiali, stabiliti dai gruppi egemoni. Come il flâneur di fine secolo si opponeva alla città moderna, il flâneur virtuale pratica una strategia di resistenza contro i gusti, i valori e le ideologie del sistema ufficiale di pantopoli. La pratica della “transurbanza” è oggi ripresa dalle azioni del laboratorio romano Stalker (Careri, 2002). Stalker, letteralmente composto  da ”individui che incedono furtivamente” (Nuvolati, 2006, p.71), ha compiuto il primo itinerario attraverso i “territori altri” nel 1995 e, da allora, continua a proporre le iniziative di osservatorio nomade e l’esperienza del camminare come pratica estetica,  in Italia e all’estero.

Pratiche di resistenza

La  nuova attrazione del labirinto   e del  nomadismo urbano viene ribadita dall’ improvvisa e imprevista comparsa di scritte indecifrabili sui muri; dai messaggi politici e di rifiuto della società e delle istituzioni; dal linguaggio artistico dei graffiti  e dei murales delle aree sub-urbane, dalla presenza delle opere dei writer e dei graffitari sui muri delle strade. Un esempio particolarmente evidente sono i murales nelle città del Sud Africa post-apartheid con la loro funzione sociale e didattica, ma anche il loro carattere di denuncia, di empowerment razziale e di memoria dell’oppressione. Dichiara Saskia Sassen: ''La città globale è un luogo strategico per attori privi di potere giacché li mette in grado di affermare la propria esistenza'' (Sassen, 2003, p.66): in essa  si nasconde   una  realtà complessa e mobile, un mosaico di spazi differenti e frammentati ove è ancor possibile perdersi tra migliaia di sentieri. Scrive Eichberg: “The new labyrinthism is confirmed by the new scripture on the urban walls, by the language of graffiti. […]  Unreadadable names appears on the concrete. By winding lines on the walls, the graffiti painter does not formulate any appeal to action. Rather, the graffiti marks a claim of identity: “This is me!” – “I was here!” – “This is my place!” This is a new variation of the quest of identity in the labyrinth, the question –“where and who am I?” (p.15). La presenza del cyberflâneur è confermata anche dal tentativo di attribuire nuovi significati  ai luoghi asettici della metropoli e di riappropriarsi degli spazi urbani, stravolgendone  gli usi convenzionali e consentiti: sono i parchi,  i giardini e le piazze della città occupati dalle comunità immigrati o dai gruppi di adolescenti; lo scorrere per le strade dei cortei, delle manifestazioni e delle parate; i luoghi dei rapper, della breakdance, della musica alternativa e dei rave, ove gli individui sperimentano forme di cultura nettamente diverse da quelle egemoniche. Tali spazi possono essere considerati  come delle vere e proprie eterotopie, in base ai criteri di definizione posti da Foucault, luoghi che sono effettivamente altro da tutti i luoghi ai quali fanno riferimento e di cui parlano: "L'eterotopia è un'antiutopia. Infatti, se l'utopia è una speranza senza luogo, l'eterotopia costituisce un'eccedenza di realizzazione. Eterotopici sono quei luoghi che non necessitano di riferimenti geografici, sono i luoghi dell'attraversamento, spazi di crisi e di condensazione di esperienza” (Foucault, 1994, pag. 7).

Per concludere,infine, possiamo tornare alla letteratura e  ricordare il dialogo finale delle Città Invisibili tra Marco Polo e  il Gran Kan,  nella loro infinita ricerca della “città perfetta”, da mettere assieme pezzo a pezzo, “fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non  sa chi li raccoglie” (Calvino, 2004, p.497). Al Gran Kan,  scoraggiato dalle città “che minacciano negli incubi e nelle maledizioni”, che  non vede ormai l’ultimo approdo se non nella “città infernale”, Marco risponde: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare,  e dargli spazio” (Calvino, 1972, pp.497-98).

 

Bibliografia

ABE, K. The Ruined Map, Tokyo: Tuttle, 1970.

AGOSTINIS, V. Periferie dell’anima. Labirinti, storie, voci tra rock, rap e Islam a Londrta, Marsiglia e Milano, Milano: Il Saggiatore, 1996.

APPADURAI, A. Modernità in polvere, Roma: Meltemi, 2001.

ARAGON, L. Le Paysan de Paris (1926),  Paris: Le Livre de poche, 1966.

AUSTER , P.  City of GlassNew York: Penguin, 1985.

BARTHES, R. L’impero dei segni, Torino: Einaudi, 1984.

BAUDELAIRE, C. Le peintre de la vie moderne. Eloge de Constantin Guys, publié pour la première fois en 1863, Collections Litteratura.Com , 30 marzo 2008 [http: //.litteratura.com]

BAUMAN, Z. Globalizzazione e glocalizzazione, Roma: Armando, 2005.

BAUMAN, Z. Modus Vivendi, Bari: Laterza, 2007.

BENJAMIN, W.  I “passages” di Parigi (1937-1939), Torino: Einaudi, Vol.1, 2000.

BENJAMIN, W.  Opere complete. Scritti 1932 - 1933, Torino: Einaudi, Vol. V,  2003.

BRENNER, N., KEIL R. (a cura di) The Global Cities Reader,  New York: Routledge, 2006.

BRETON, A. Entretiens, Parigi:  Gallimard, 1973.

CALVINO, I. Romanzi e racconti,  Milano: Mondadori, 1972.

CAPEL, H. 2003. Una mirada histórica sobre los estudios de redes de ciudades y sistemas urbanos. GeoTrópico, 1 (1), GeoLat, Bogotà, 2003, pp. 30-65, [http://www.geotropico.org/1_1_Capel.html]

CAPEL, H. El futuro de las ciudades. Una propuesta de manifesto. Biblio 3W, Revista Bibliográfica de Geografía y Ciencias Sociales, Universidad de Barcelona, Vol. IX, n° 551, 10 de diciembre de 2004.  [http://www.ub.es/geocrit/b3w-551.htm].

CARERI, F.  Constant. New Babylon, una città nomade,  Torino: Testo & Immagine, 2001.

CARERI, F. Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Torino: Einaudi, 2006.

CASTELLS M. The Rise of Network Society, Cambridge MA.: Blackwell, 1996.

CASTELLS M. Cities, the Information Society and the Global Economy. In BRENNER, KEIL (a cura di), 2006, pp.135-137.

DE CERTEAU, M. L’invenzione del quotidiano, Roma: Edizioni Lavoro, 2001.

DEBORD, G.   Introduction à une critique de la géographie urbain.. Les lèvres nues n° 6, Bruxelles, 1955, p.11-15.

DEBORD, G.  Panaorama intelligent de l’avant-guarde à la fin de 1955 . Potlach n.24, 1955b, p.1-6.

DEBORD, G. Theorie de la  dérive , in Les lèvres nues n° 9, 1956, p.19-23.

DEBORD, G.  La société  du spectacle, 1967  30 marzo, 2008.

ECO,  U. Dall’albero al labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazione, Milano: Bompani, 2007.

DELEUZE, G., GUATTARI, F. Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma: Castelvecchi, 2003.

EICHBERG, H. The labyrinth of the city – Fractal movement and identity, [Q|/Websted1/qHE2001_6.htm (1 a 23)18-07-2005 12:55:38]

FEATHERSTONE , M. The flâneur, the city and virtual public life. Urban Studies,  35 (5-6), 1998, p. 909-925.

FOUCAULT, M.. Eterotopia. Luoghi e non luoghi metropolitani.  In Millepiani, 2, Milano: Mimesis, 1994, p. 9-22.

LA CECLA, F. Perdersi. L’uomo senza ambiente, Bari: La Terza, 2000

NEUWIRTH, R.  Shadow Cities. A Billion Squatters. A New Urban World, New York: Routledge, 2005.

NUVOLATI G., Lo sguardo del vagabondo. Il flâneur e la citta da Baudelaire ai postmoderni, Bologna: Il Mulino, 2006.

RAFFESTIN, C. Le Labyrinthe du monde. Cahiers Vilfredo Pareto : Revue européenne des  sciences sociales, Tome XXXIV, 1996, n.104, p.111-124.

RAFFESTIN, C. Il labirinto come metafora, dattiloscritto, s.d.

RESTA, C.  Stranieri nella metropoli.  Anterem, Eterotopie, 58, 1999, pp.81-84.

ROGEL  SALAZAR, R. The Labyrinth of the City. A Guided Visit to Make a Journey Around Different Interpretations of the City.  Ciencia Ergo Sum, marzo, vol.10, n.1, 2003, p. 5-17

SANDERCOCK, L  Towards Cosmopolis: planning for multicultural cities, London: John Wiley, 1998.

SANDERCOCK, Cosmopolis II: Mongrel Cities in the 21st Century, London: Continuum, 2003.

SASSEN, S.  Globalization and its discontents. Essays on the New Mobility of People and Money. New York: New Press, 1998.

SASSEN, S. The global city : New York, London, Tokyo, Princeton : Princeton University Press, 2001.

SMITHSON, R. A Museum of language in the vicinity of art. In  The Writing of  Robert Smithson, a cura di  N. Holt, New York: University Press, 1979, p. 74-76.

SPENGLER, O.  Il tramonto dell’occidente, Milano: Longanesi, 1957.

UNITED NATIONS POPULATION FUND, State of the World Population 2007. Unleashing the  Potential of Urban Growth, UNFPA, 2007.

VEEL, K. The Irreducibility of Space: Labyrinths, Cities, Cyberspace. diacritics, Vol. 33, Number 3/4, Fall-Winter 2003, p. 151-172.


© Copyright Marcella Schmidt di Friedberg, 2008
© Copyright Scripta Nova, 2008

Referencia bibliográfica

SCHMIDT DI FRIEDBERG, Marcella. La città – un infinito limitato. Scripta Nova. Revista Electrónica de Geografía y Ciencias Sociales.  Barcelona: Universidad de Barcelona, 1 de agosto de 2008, vol. XII, núm. 270 (61). <http://www.ub.es/geocrit/sn/sn-270/sn-270-61.htm> [ISSN: 1138-9788]


Volver al índice de Scripta Nova número 270

Índice de Scripta Nova Menú principal